Quando è possibile il suicidio assistito in Italia

La Corte Costituzionale, con le sentenze n. 242/19 e n. 135/24, ha stabilito le condizioni in cui è possibile accedere al suicidio assistito in Italia

Quando è possibile il suicidio assistito in Italia

Quando è possibile il suicidio assistito in Italia. La Corte Costituzionale, con le sentenze n. 242/19 e n. 135/24, ha stabilito le condizioni in cui è possibile accedere al suicidio assistito in Italia. Questa situazione si verifica mentre si attende una riforma legislativa che il Parlamento non riesce a mettere in atto. Nel frattempo, sarà l’Azienda Sanitaria Locale (Asl) a verificare se coloro che soffrono in modo insopportabile a causa di malattie incurabili hanno diritto o meno di ricevere assistenza per una morte “dignitosa“.

Le sentenze hanno delineato quali sono le malattie per le quali è consentito il suicidio assistito e hanno definito la procedura da seguire, ma è importante considerare le implicazioni legali per chi fornisce assistenza a una persona che desidera porre fine alla propria vita.

Cos’è il suicidio assistito

Il suicidio assistito è una pratica che implica l’assistenza a una persona che desidera porre fine alla propria vita in modo volontario e consapevole. È fondamentale comprendere la distinzione tra suicidio assistito ed eutanasia.

L’eutanasia consiste in un atto diretto da parte di un medico o di un operatore sanitario, che provoca la morte del paziente su richiesta esplicita di quest’ultimo, con l’obiettivo di “alleviare” una sofferenza intollerabile. In questo caso, non è necessaria la partecipazione attiva del paziente.

Nel suicidio assistito, invece, è il malato stesso a compiere l’azione che porta alla morte, ad esempio assumendo un farmaco letale o iniettandosi un medicinale mortale. Il ruolo del personale sanitario è limitato a fornire il farmaco e le informazioni necessarie, senza intervenire direttamente nell’atto finale.

In Italia, l’eutanasia è illegale e nessuno può procurare la morte a un’altra persona, anche se richiesta. Al contrario, il suicidio assistito è legale, ma non è ancora regolato da una normativa specifica. La Corte Costituzionale ha stabilito che non è reato assistere un malato terminale nel suicidio, ma le condizioni per questa pratica sono definite solo da sentenze e vengono verificate caso per caso dall’Azienda Sanitaria Locale (Asl).

La sospensione delle cure, che comporta l’interruzione di trattamenti vitali, è invece lecita. Ogni paziente ha il diritto di rifiutare trattamenti medici non imposti per legge, anche se necessari per la sopravvivenza. Questo diritto è sancito dall’articolo 32 della Costituzione e dall’articolo 1 della legge 219/2017, che stabiliscono che il medico deve rispettare la volontà del paziente di rifiutare o rinunciare a trattamenti sanitari, esentandosi così da responsabilità civile o penale.

Quando è possibile il suicidio assistito?

La Corte Costituzionale ha stabilito che il suicidio assistito è consentito solo in presenza di alcune condizioni specifiche. In primo luogo, la patologia del paziente deve essere irreversibile. Inoltre, il malato deve soffrire di dolori fisici o psicologici che considera intollerabili e deve dipendere da trattamenti di sostegno vitale. Infine, è necessario che il paziente sia in grado di prendere decisioni in modo libero e consapevole.

La Corte ha più volte evidenziato la mancanza di una legge che regoli questa pratica, auspicando che il legislatore e il servizio sanitario nazionale garantiscano l’attuazione dei principi stabiliti nella sentenza 242/19. Nella sentenza più recente, n. 135/2024, la Consulta ha anche fatto un appello affinché a tutti i pazienti sia assicurato un accesso effettivo a cure palliative appropriate, in conformità con la legge 38/2010, per gestire la loro sofferenza.

Cosa si intende per trattamenti di sostegno vitale?

Il diritto al suicidio assistito non riguarda solo i pazienti già sottoposti a trattamenti di sostegno vitale, che possono richiederne l’interruzione, ma anche coloro che non hanno ancora iniziato tali trattamenti ma che necessitano di essi per mantenere le funzioni vitali. Anche in questa situazione, il paziente ha il diritto di rifiutare il trattamento, trovandosi quindi nelle condizioni previste dalla sentenza 242/19. È compito del sistema sanitario nazionale verificare la presenza di questi presupposti.

Secondo la Corte Costituzionale, il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, indipendentemente dalla sua complessità o invasività. Questo include procedure che di solito vengono eseguite da personale sanitario, anche a domicilio, e che richiedono competenze specifiche. Tuttavia, tali procedure potrebbero essere apprese anche da familiari o caregiver che assistono il paziente.

Esempi di trattamenti di sostegno vitale comprendono l’evacuazione manuale dell’intestino, l’inserimento di cateteri urinari e l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali. Queste procedure sono essenziali per garantire le funzioni vitali del paziente; la loro omissione o interruzione potrebbe portare a una morte imminente. Pertanto, rientrano nella categoria dei trattamenti di sostegno vitale.

La Consulta sottolinea che anche pratiche come l’idratazione, l’alimentazione e la ventilazione artificiale possono essere legittimamente rifiutate dal paziente, il quale esercita così il diritto di esporsi a un rischio imminente di morte.

Per la sclerosi multipla è possibile il suicidio assistito?

Secondo la sentenza della Corte Costituzionale del 2024, la sclerosi multipla in fase avanzata non consente l’accesso al suicidio assistito, anche se il paziente si trova in uno stato di quasi totale immobilità. Questo perché non è soddisfatto il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. L’acuta sofferenza e l’irreversibilità della malattia, quindi, non sono sufficienti da sole per giustificare il ricorso al suicidio assistito.

La Corte ha chiarito che il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non crea disparità irragionevoli tra i pazienti. La sentenza 242/19 non riconosce un diritto generale a porre fine alla propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile causata da una patologia irreversibile. Essa ha stabilito che è irragionevole negare l’accesso al suicidio assistito a quei pazienti che, mantenendo le proprie capacità decisionali, hanno il diritto, secondo la legge 219/17, di rifiutare i trattamenti necessari per la loro sopravvivenza.

Tuttavia, questo diritto non si estende ai pazienti che non dipendono da trattamenti di sostegno vitale. Questi pazienti non hanno, o non hanno ancora, la possibilità di scegliere di morire semplicemente rifiutando le cure. Pertanto, le due situazioni sono considerate differenti.

Chi verifica le condizioni per il suicidio assistito?

Le condizioni e le modalità di esecuzione del suicidio assistito devono essere verificate da strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, nell’ambito della “procedura medicalizzata” prevista dalla legge 219/17. Prima di procedere, è necessario ottenere il parere del comitato etico competente a livello territoriale. Inoltre, il giudice penale ha la facoltà di accertare la presenza di tutti i requisiti relativi a un eventuale reato.

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