Chi decide gli stipendi in Italia?

In Italia, la determinazione degli stipendi dipende da vari fattori e non esiste un’unica autorità che li stabilisce. In passato, fino agli anni ’80, c’era la cosiddetta “scala mobile”

Chi decide gli stipendi in Italia?

Chi decide gli stipendi in Italia? In Italia, la determinazione degli stipendi dipende da vari fattori e non esiste un’unica autorità che li stabilisce. In passato, fino agli anni ’80, c’era la “scala mobile“, un meccanismo che adeguava automaticamente i salari al costo della vita. Ma oggi questo non è più in vigore.

Attualmente, gli stipendi sono regolati da contratti collettivi tra sindacati e datori di lavoro. Questi contratti stabiliscono le condizioni di lavoro, compreso il livello di stipendio per una determinata categoria di lavoratori. Tuttavia, questi contratti possono essere negoziati e modificati, ma solitamente seguono linee guida e standard prestabiliti.

Inoltre, in alcuni settori, possono essere presenti accordi aziendali che regolano gli stipendi in base alle performance individuali o ad altri criteri definiti dall’azienda stessa.

Quindi, per rispondere alla domanda su chi decide gli stipendi in Italia, si può dire che è un processo complesso che coinvolge sindacati, datori di lavoro e, in alcuni casi, anche le leggi statali. Quanto a modificare lo stipendio previsto dal contratto collettivo, dipende dai termini del contratto stesso e dalle possibilità di negoziazione tra le parti coinvolte.

Differenza tra lavoratori dipendenti ed esterni

La legge assicura uno stipendio minimo solo ai lavoratori dipendenti, indipendentemente dal tipo di contratto (part-time o full-time, a tempo determinato o indeterminato, con o senza apprendistato).

Per i lavoratori esterni, come professionisti, Partite Iva o collaboratori coordinati e continuativi (co.co.co.), il compenso è soggetto a negoziazione tra le parti. Non esistono regole, minimi o garanzie stabilite dalla legge, salvo quelle concordate nel contratto.

Criterio dei contratti collettivi

In Italia, il salario minimo dei dipendenti non è definito da un sistema legale, ma dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL). Questi sono accordi stipulati tra i sindacati, che rappresentano le categorie dei lavoratori, e i datori di lavoro. Ogni categoria lavorativa ha il suo CCNL e quindi una retribuzione diversa.

La paga dipende da diversi fattori, come il livello contrattuale, l’anzianità di servizio, i titoli di studio e le mansioni svolte. Esistono anche indennità per attività specifiche che comportano maggiore responsabilità o rischio.

Le paghe possono, inoltre, essere influenzate dagli straordinari e dalle ore di lavoro durante le festività, per le quali è prevista una maggiorazione. In generale, all’aumentare dell’esperienza e delle promozioni, aumenta anche il salario. Tuttavia, quanto previsto nei contratti collettivi è solo il salario minimo sindacale, cioè la base. Il datore di lavoro può comunque decidere di concedere ulteriori aumenti.

Differenze retributive tra dipendenti

Nel contesto lavorativo, non esiste un principio di parità di trattamento retributivo tra tutti i dipendenti. Pur rispettando il minimo sindacale, il datore di lavoro ha il diritto di differenziare le retribuzioni, a condizione che non ci siano discriminazioni riguardanti sesso, orientamento politico o sessuale, o condizioni di salute.

Recentemente, la Corte di Cassazione ha sollevato interrogativi sul sistema di determinazione delle retribuzioni dei lavoratori. Tradizionalmente, le retribuzioni erano stabilite tramite i contratti collettivi, accordi tra aziende e rappresentanti dei lavoratori che definivano le condizioni di lavoro, compresi gli stipendi. Tuttavia, alcune nuove sentenze della Cassazione, come la numero 27722 del 2 ottobre 2023, hanno iniziato a rivalutare questo approccio.

Secondo la Corte, gli stipendi concordati nei contratti collettivi possono essere riesaminati dal giudice se non rispettano principi come l’equità e l’adeguatezza, sanciti dalla Costituzione italiana (articolo 36). Se uno stipendio concordato è ritenuto troppo basso, il tribunale potrebbe ordinarne l’aumento.

Questo nuovo approccio non mira a stravolgere il passato, ma a garantire che gli stipendi siano equi e adeguati. La Corte di Cassazione sta promuovendo un controllo più attento degli stipendi rispetto ai principi costituzionali. Questo segna un importante cambiamento: in passato, tale controllo era più teorico che pratico.

La Corte ha anche sottolineato che un eventuale salario minimo imposto per legge non potrebbe sostituire il ruolo del giudice. Spetta infatti al giudice valutare se lo stipendio, anche se stabilito per legge, rispetti i principi fondamentali della Costituzione in ogni situazione specifica.

Sfruttamento del lavoro del dipendente

Nell’ambito della lotta contro lo sfruttamento lavorativo, la Cassazione ha adottato un principio importante, specialmente in campo penale. Un esempio è la legge che sanziona chi sfrutta i lavoratori (articolo 603 bis del Codice penale), introdotta nel 2011 e poi rafforzata nel 1996.

Un caso significativo è stato trattato dalla Cassazione nella sentenza numero 2573/2024, datata 22 gennaio. In questo caso, i proprietari di un’azienda agricola che pagavano i lavoratori extracomunitari 3 euro all’ora per giornate di 9 ore sono stati giudicati colpevoli di sfruttamento. Questo perché lo stipendio offerto era molto inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali per quel tipo di lavoro. La Corte ha visto in questa differenza una grave sproporzione, segno evidente di sfruttamento lavorativo.

La Cassazione ha sottolineato che non sempre lo stipendio indicato nei contratti collettivi è adeguato. Se lo stipendio previsto non rispetta il principio dell’articolo 36 della Costituzione, che richiede uno stipendio sufficiente per garantire una vita dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia, allora dovrebbe essere confrontato con uno stipendio più alto.

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