L’omicidio dei coniugi Maso, noto anche come il delitto di Montecchia di Crosara, fu un caso di duplice omicidio commesso il 17 aprile 1991 a Montecchia di Crosara, in provincia di Verona
L’omicidio dei coniugi Maso, noto anche come il delitto di Montecchia di Crosara, è un caso di duplice omicidio avvenuto il 17 aprile 1991 a Montecchia di Crosara, in provincia di Verona. Questo caso è ricordato come uno dei più emblematici in cui i figli uccidono i genitori, simile ad altri casi noti come il delitto Graneris del 1975 e quello di Novi Ligure del 2001.
Pietro Maso, all’epoca diciannovenne, insieme a tre amici, Giorgio Carbognin, Paolo Cavazza e Damiano Burato, uccise i suoi genitori, Antonio Maso e Mariarosa Tessari, per appropriarsi della loro eredità. Pietro fu arrestato il 19 aprile 1991 e condannato a trent’anni di carcere, con riconoscimento di seminfermità mentale al momento del delitto. Dopo aver scontato ventidue anni di detenzione, fu liberato nel 2013 e successivamente ricoverato in una clinica psichiatrica nel marzo 2016. I suoi complici, Carbognin e Cavazza, ricevettero una pena di ventisei anni, mentre Burato, essendo minorenne, fu condannato a tredici anni.
La storia inizia con la famiglia Maso, composta da Antonio e Mariarosa, agricoltori benestanti, e dai loro tre figli. Pietro, l’ultimogenito, viveva con i genitori e conduceva una vita dispendiosa. Negli ultimi mesi prima del delitto, i genitori erano preoccupati per il comportamento di Pietro, che aveva lasciato il lavoro e mostrava segni di instabilità. Un episodio inquietante avvenne quando la madre trovò due bombole di gas e altri oggetti nella cantina, che Pietro giustificò come materiali per una festa. L’esplosione prevista non avvenne a causa di un errore di Pietro.
Pochi giorni prima dell’omicidio, la madre trovò una somma di 2 milioni di lire nei pantaloni del figlio, ma Pietro fornì spiegazioni poco convincenti. In seguito, tentò di far uccidere i genitori da Carbognin, ma questi si tirò indietro.
Nella notte tra il 16 e il 17 aprile 1991, Pietro e i suoi amici attesero il rientro dei genitori, aggredendoli con spranghe e pentole. Dopo l’omicidio, Pietro fece finta di scoprire i corpi e chiese aiuto ai vicini. Inizialmente si pensò a un omicidio per rapina, ma il comportamento di Pietro insospettì gli inquirenti.
Il caso dei coniugi Maso divenne un tema di discussione nei media e si inserì nel contesto di altri omicidi simili in Italia. Pietro Maso, dopo la condanna, espresse pentimento e, dopo la sua liberazione, continuò a essere al centro dell’attenzione pubblica.
L’omicidio dei coniugi Maso
Le banconote trovate dalla madre di Pietro Maso provenivano da un prestito bancario richiesto da Giorgio Carbognin, per il quale il suo datore di lavoro, Aleardo Confente, aveva fatto da garante. I soldi erano destinati all’acquisto di un’auto usata, ma la famiglia di Giorgio si oppose e lui decise di non restituire il denaro alla banca, sperperandolo invece in ristoranti, discoteche, bar e gioiellerie insieme a Pietro.
Quando arrivò il momento di restituire il prestito, Carbognin chiese aiuto a Pietro, che decise di staccare un assegno da 25 milioni di lire dal conto della madre, imitandone la firma. Il delitto doveva essere commesso prima che la madre si accorgesse dell’ammanco. Pietro, temendo che i genitori potessero tagliargli i viveri, decise di ucciderli e organizzò un piano con i suoi amici, promettendo loro una parte dell’eredità: 200 milioni a testa per Cavazza e Burato, e il resto diviso tra lui e Carbognin.
L’omicidio avvenne nella notte tra il 17 e il 18 aprile 1991. Quella sera, Pietro e i suoi amici si riunirono per discutere gli ultimi dettagli. Un quinto amico, Michele, fu informato del piano ma pensò che fosse uno scherzo e se ne andò. I genitori di Pietro, dopo aver partecipato a un incontro dei neocatecumenali, tornarono a casa. Quando entrarono, il padre cercò di accendere la luce, ma la lampadina era stata svitata. Pensando a un problema di alimentazione, salì le scale per controllare il contatore e fu colpito da Pietro con un tubo di ferro e da Damiano con una pentola. Poco dopo arrivò la madre, che subì la stessa sorte; non morì subito e fu soffocata con del cotone.
Dopo l’omicidio, Pietro e Carbognin andarono in discoteca per crearsi un alibi, mentre Cavazza e Burato tornarono a casa. Dopo qualche ora, Pietro tornò per inscenare la scoperta dei corpi, dicendo ai vicini di aver visto le gambe dei genitori stesi per terra. I cadaveri furono scoperti da un vicino che entrò in casa per verificare quanto detto da Pietro.
Le indagini inizialmente seguirono la pista di un omicidio a scopo di rapina, ma si capì presto che si trattava di un furto simulato. Le sorelle di Pietro, Nadia e Laura, iniziarono a insospettirsi quando notarono l’uscita di 25 milioni dal conto della madre. Le indagini, accelerate dal comportamento strano di Pietro e dalle chiacchiere tra i suoi amici, portarono al suo arresto e a quello dei complici. Pietro confessò poco dopo l’arresto.
Processi e condanna di Pietro Maso
Tutti gli accusati furono arrestati per omicidio volontario, ma l’accusa si trasformò in duplice omicidio volontario premeditato con aggravanti, tra cui crudeltà e futili motivi. Per Pietro Maso, venne considerato anche il vincolo di parentela. Il pubblico ministero Mario Giulio Schinaia richiese una perizia psichiatrica, e lo psichiatra Vittorino Andreoli concluse che tutti e tre gli imputati erano mentalmente sani e capaci di intendere e volere. Nel caso di Maso, Andreoli parlò di un disturbo narcisistico della personalità, specificando che non si trattava di una forma di infermità mentale.
Durante il processo presso la Corte d’assise di Verona, il pubblico ministero chiese l’ergastolo per Maso e pene inferiori per gli altri due complici. La sentenza, emessa il 29 febbraio 1992, condannò Pietro Maso a 30 anni di reclusione con riconoscimento di seminfermità, mentre Cavazza e Carbognin furono condannati a 26 anni ciascuno. Maso, per diversi mesi, pretese la sua parte di eredità, ma alla fine, su consiglio del suo avvocato, decise di rinunciarvi ufficialmente per aumentare le possibilità di evitare l’ergastolo.
Dopo la condanna, nel 1996, Maso scrisse una lettera al vescovo di Vicenza, Pietro Giacomo Nonis, esprimendo pentimento e chiedendo perdono a Dio. Il vescovo, che aveva celebrato le esequie dei coniugi Maso, si recò in carcere per parlare con lui. Maso scontò la pena in regime di semilibertà nel carcere di Opera, in provincia di Milano, e ottenne alcuni permessi premio. Con l’indulto, la fine della sua pena fu fissata al 2015.
Durante la detenzione, Maso partecipò a programmi rieducativi, studiò e si riavvicinò alla fede. In un’intervista del 5 febbraio 2007, dichiarò che molti ragazzi gli scrivevano per chiedergli consigli, e lui li invitava a non seguire il suo esempio. Tuttavia, la scrittrice Cinzia Tani affermò che in carcere Maso si preoccupava principalmente della sua immagine e non mostrava rimorso.
Il 14 ottobre 2008, Maso ottenne la semilibertà e iniziò a lavorare in una ditta di assemblaggio computer a Peschiera Borromeo. Il suo primo giorno di lavoro attirò l’attenzione dei giornalisti, e un passante lo insultò. La fine della sua condanna era prevista per il 2018, ma fu anticipata al 2015, e il 15 aprile 2013 Maso fu rimesso in libertà. In seguito, prestò servizio presso l’emittente cattolica Telepace, sotto la guida di Don Guido Todeschini.
Nell’aprile 2013, pubblicò un libro intitolato “Il male ero io”, in cui racconta il delitto e il suo percorso di riscatto durante i ventidue anni in prigione. Tuttavia, il 21 gennaio 2016, la Procura di Verona lo iscrisse nel registro degli indagati per tentata estorsione, e le sue sorelle furono messe sotto scorta. Il 4 marzo successivo, Maso fu ricoverato in clinica psichiatrica per problemi mentali e dipendenza dalla cocaina. Il 29 luglio 2020, si scoprì che Maso riceveva il reddito di cittadinanza dal 2019.
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