Cosa rischia chi insulta il datore di lavoro sui social?

In generale, insultare il datore di lavoro sui social media può configurare il reato di diffamazione, ma la risoluzione del rapporto di lavoro non è automatica

Cosa rischia chi insulta il datore di lavoro sui social?

Cosa rischia chi insulta il datore di lavoro sui social? L’uso dei social è diventato una parte significativa della vita professionale, con le opinioni personali spesso mescolate agli impegni lavorativi. Questo fenomeno si estende su varie piattaforme, tra cui Facebook, LinkedIn e altri. Non è insolito trovare dipendenti che, in un momento di critica, esprimano opinioni negative riguardanti il proprio datore di lavoro. Ma quali sono le conseguenze per chi insulta pubblicamente l’azienda sui social?

La Cassazione ha affrontato ripetutamente questa questione, talvolta confermando il licenziamento, altre volte annullandolo, e in alcune occasioni ritenendolo una sanzione eccessiva rispetto al comportamento del dipendente. Ciò che varia da un caso all’altro sono diverse variabili che possono influenzare la legittimità della sanzione disciplinare.

Quando si può licenziare per un insulto su un social?

In generale, insultare il datore di lavoro sui social media può configurare il reato di diffamazione, ma la risoluzione del rapporto di lavoro non è automatica.

La legittimità del licenziamento dipende da vari fattori:

  • Gravità dell’offesa: La legge consente di criticare l’operato del datore di lavoro, ma non di offendere pubblicamente la sua dignità morale, personale o professionale. La critica è lecita, mentre la diffamazione non lo è.
  • Contesto: Il contesto può influenzare la gravità dell’offesa. Ad esempio, se c’è una forte conflittualità tra dipendenti e datore, l’offesa potrebbe essere considerata meno grave e quindi meno passibile di licenziamento.
  • Ruolo del dipendente: Il ruolo e la posizione del dipendente nell’azienda sono importanti. Maggiore è la sua responsabilità e il suo ruolo apicale, maggiore è l’esempio che dovrebbe dare agli altri dipendenti. Di conseguenza, l’offesa di un dirigente potrebbe essere giudicata più severamente rispetto allo sfogo di un operaio.
Cosa dice la Cassazione sul licenziamento del dipendente che offende il datore di lavoro?

La recente ordinanza n. 12142/2024 della Cassazione, datata 06 maggio 2024, ha stabilito un precedente significativo riguardo al licenziamento disciplinare legato all’uso dei social network. Secondo la Corte, la pubblicazione su Facebook di commenti offensivi nei confronti del datore può costituire una “giusta causa” di recesso dal contratto di lavoro per violazione del rapporto fiduciario essenziale tra le parti. Di conseguenza, in tali casi, il recesso avviene senza preavviso.

Questa decisione si applica indipendentemente dalle impostazioni della privacy sul profilo dell’utente: anche i post visibili solo agli “amici” possono superare i limiti della confidenzialità e raggiungere un pubblico più ampio. La Corte ha evidenziato come tali messaggi, una volta pubblicati su un social network, possano diffondersi a un pubblico molto più vasto e indeterminato, sfuggendo al controllo dell’autore.

La Cassazione ha sottolineato che, nonostante l’apparente chiusura di alcuni ambienti social, il mezzo utilizzato ha la capacità di ampliare la portata dei messaggi a un gruppo più vasto di utenti, aumentando così il loro impatto potenziale.

Va tenuto presente che, ai fini della diffamazione, è sufficiente che l’offesa sia pronunciata dinanzi ad almeno due persone. Di conseguenza, la diffusione di commenti denigratori o offensivi può configurare un’azione diffamatoria, specialmente quando il contenuto del post danneggia la reputazione del datore di lavoro.

Inoltre, la giurisprudenza ha riconosciuto ripetutamente la potenziale offensività di tali comunicazioni, sia nel contesto civile che penale. La capacità del messaggio di superare i confini inizialmente previsti dall’autore e di raggiungere un numero indefinito di persone conferma la gravità di tali azioni nell’ambito lavorativo.

Con il licenziamento spetta l’assegno di disoccupazione?

Nonostante il comportamento illecito, il dipendente può comunque richiedere all’INPS l’assegno di disoccupazione, noto come Naspi. Come chiarito dal Ministero del Lavoro, anche se il licenziamento è stato motivato da una “giusta causa” (cioè da un comportamento doloso o gravemente colpevole del lavoratore) il fatto che la risoluzione del rapporto di lavoro sia avvenuta per decisione del datore di lavoro permette comunque di ottenere il sostegno economico previsto.

Cosa deve fare il datore di lavoro per licenziare il dipendente?

Anche se il comportamento del dipendente costituisce un reato, come nel caso di diffamazione, il datore di lavoro ha l’obbligo di contestare immediatamente l’illegalità. Questa contestazione deve avvenire entro 5 giorni dalla scoperta dell’atto illecito, dando al dipendente la possibilità di presentare eventuali difese scritte.

Il datore di lavoro non può attendere l’esito del processo penale per ottenere la prova dell’illegalità prima di avviare il procedimento disciplinare. Se il datore di lavoro dovesse ritardare l’avvio del procedimento disciplinare fino alla conclusione delle indagini o del processo penale per prudenza, il licenziamento sarebbe considerato illegittimo, come stabilito da una sentenza del Tribunale di Milano (n. 12117/2017).

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