Il contingente italiano di 1.200 soldati si trova attualmente in Libano come parte della missione ONU Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) il cui compito principale è monitorare il rispetto della pace nella regione
Perché i soldati italiani sono in Libano. Il contingente italiano di 1.200 soldati si trova attualmente in Libano come parte della missione ONU Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon). Questa missione, attualmente in stato di allerta a causa dell’escalation del conflitto tra Israele e Hezbollah, è composta da una forza di peacekeeping il cui compito principale è monitorare il rispetto della pace nella regione. I soldati italiani sono in prima linea, esposti a un crescente rischio per la loro sicurezza.
Perché l’Italia ha un contingente in Libano?
L’Italia partecipa alla missione Unifil, nata nel 1978 con l’obiettivo di monitorare il ritiro delle truppe israeliane dal sud del Libano dopo l’invasione. Nel corso degli anni, il mandato della missione è stato esteso, soprattutto dopo il conflitto tra Israele e Hezbollah nel 2006. L’Italia, con una tradizione consolidata di partecipazione alle missioni di pace dell’ONU, ha progressivamente aumentato la sua presenza in Libano, diventando uno dei principali contributori di Unifil. Attualmente, la missione conta circa 10.500 soldati provenienti da 46 paesi. Tra i contingenti maggiori ci sono, oltre agli italiani:
- 3.993 soldati indonesiani
- 642 indiani
- 568 ghanesi
- 518 nepalesi
I soldati italiani svolgono una varietà di compiti delicati, che includono il pattugliamento della “Linea Blu”, il confine che separa Israele dal Libano, assistenza alla popolazione civile, sminamento e supporto all’esercito libanese. Un ruolo fondamentale è svolto dalla Task Force “Italair”, un’unità di elicotteri dell’Esercito Italiano che fornisce supporto aereo alla missione. Come riportato dall’Unifil, questa unità ha accumulato oltre 46.000 ore di volo in 45 anni, trasportando più di 186.000 passeggeri e effettuando 1.424 evacuazioni mediche.
La situazione attuale
Secondo quanto riportato da La Stampa, il contingente italiano è stato messo in stato di “allerta 2“, che è il penultimo livello di allerta prima dell’evacuazione. Questo implica che i movimenti fuori dalle basi sono stati drasticamente ridotti e i soldati sono pronti a evacuare in caso di emergenza. “Le nostre attività operative sono sospese, usciamo il meno possibile e stiamo predisponendo i piani di esfiltrazione”, ha spiegato una fonte dello Stato Maggiore della Difesa. “Se la situazione peggiora, siamo pronti a ritirarci rapidamente”.
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è in costante contatto con i vertici della sicurezza nazionale, confrontandosi regolarmente con i ministri degli Esteri, Antonio Tajani, della Difesa, Guido Crosetto, e con il sottosegretario ai servizi segreti, Alfredo Mantovano. Parallelamente, anche i ministri degli Esteri dell’Unione Europea si sono riuniti per definire un approccio comune. Il vicepremier Tajani ha dichiarato che l’obiettivo è quello di “non chiudere le porte al dialogo diplomatico”. Tuttavia, le preoccupazioni per la sicurezza dei caschi blu sono concrete. Nelle settimane precedenti, alcuni colpi di artiglieria israeliani sono caduti vicino alle postazioni di Unifil, inclusa la base 4-28 a Ramyah. Con l’intensificarsi dei bombardamenti e l’annuncio dell’operazione di terra, il rischio per i peacekeepers di trovarsi coinvolti nel fuoco incrociato è molto alto.
I bunker delle basi Unifil
I bunker delle basi Unifil, costruiti per resistere ad attacchi convenzionali, sono l’unico rifugio per i peacekeepers. Tuttavia, queste strutture non sono completamente sicure o confortevoli. “I bunker hanno mura di cemento armato spesse circa 30-40 cm e porte blindate in acciaio”, ha spiegato a La Stampa il generale di brigata Massimo Panizzi, ex comandante del contingente italiano. “Possono resistere a esplosioni vicine o schegge di artiglieria, ma non all’impatto diretto di un missile o una bomba perforante”. Inoltre, ha aggiunto l’ufficiale, “hanno riserve limitate di energia elettrica, viveri e ossigeno. In condizioni di sovraffollamento, queste risorse si consumano molto rapidamente”.
La missione italiana
Nel corso degli anni, la missione italiana in Libano ha comportato numerosi rischi e purtroppo anche perdite. Sette soldati italiani hanno perso la vita durante le operazioni. Il più grave incidente risale al 2007, quando sei peacekeepers (tre colombiani e tre spagnoli) furono uccisi in un attentato. Questi episodi ricordano quanto sia pericolosa la missione in una regione instabile come il Libano, dove Hezbollah ha una forte presenza e ci sono frequenti sconfinamenti da parte dell’esercito israeliano.
Il generale Stefano Del Col, attuale comandante della missione Unifil, ha spiegato: “Siamo qui per mantenere la pace, non per fare la guerra a nessuno. Ma abbiamo il diritto e il dovere di difenderci se attaccati”. Questo diritto è sancito dalle regole d’ingaggio dell’ONU, che autorizzano l’uso della forza per legittima difesa o per proteggere i civili. Il ministro Crosetto ha ribadito che Unifil non è un bersaglio diretto degli attacchi, ma che “l’aumento dell’intensità degli scontri può portare a un coinvolgimento accidentale”. Ha concluso dicendo che “la presenza dei nostri militari rappresenta un elemento di garanzia e speriamo che possa contribuire a una de-escalation”.
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