Delitto di via Carlo Poma

Il delitto di via Carlo Poma a Roma, il 7 agosto 1990, fu l’omicidio di Simonetta Cesaroni in un appartamento al terzo piano del complesso di via Carlo Poma n. 2, nel quartiere della Vittoria

Delitto di via Carlo Poma

Delitto di via Carlo Poma. Il delitto di via Carlo Poma a Roma, il 7 agosto 1990, fu l’omicidio di Simonetta Cesaroni in un appartamento al terzo piano del complesso di via Carlo Poma n. 2, nel quartiere della Vittoria. Questo caso non è stato risolto nonostante trent’anni di indagini.

Numerose indagini e piste investigative hanno sospettato diverse persone nel corso degli anni. Pietrino Vanacore, portiere dello stabile, Salvatore Volponi, datore di lavoro della vittima, Federico Valle, legato al progettista del complesso e infine Raniero Busco, fidanzato della vittima, sono stati accusati ma tutti scagionati dalle accuse.

Il caso ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, generando libri, trasmissioni televisive e un film nel 2011. È stato considerato un mistero della cronaca nera, caratterizzato da errori investigativi che hanno compromesso le indagini, impedendo l’identificazione del colpevole. Oltre alla mancanza dell’identità dell’assassino, non sono state confermate informazioni sul movente, sull’arma del delitto, sugli individui presenti nel complesso di via Poma quel giorno e sull’orario della morte della vittima. Le circostanze del delitto non sono state chiarite: potrebbe essere stato un omicidio passionale commesso da qualcuno noto alla vittima o un atto casuale da parte di uno sconosciuto.

La storia

Simonetta Cesaroni era una giovane romana, nata nel 1969 e residente a Don Bosco, Lamaro (Via Filippo Serafini, 6), insieme al padre Claudio (1939-2005), che lavorava come tranviere per l’A.co.tra.l (azienda tranviaria di Roma e del Lazio), la madre casalinga Anna Di Giambattista (1939), e la sorella Paola (1963), fidanzata con Antonello Barone. Simonetta, fidanzata con Raniero Busco, aveva iniziato a lavorare come segretaria contabile presso la Reli Sas nel gennaio 1990. Successivamente, era stata proposta per un incarico contabile presso l’A.I.A.G., un cliente della Reli Sas, a partire dal 19 giugno 1990. Simonetta lavorava il lunedì, il mercoledì e il venerdì presso la Reli Sas, mentre il martedì e il giovedì si recava presso gli uffici A.I.A.G., situati in via Poma 2.

Nonostante avesse un buon rapporto con la sua famiglia, Simonetta manteneva una grande riservatezza sul lavoro, evitando di parlare dei telefonate anonime moleste ricevute durante il lavoro, condividendo questa preoccupazione solo con sua madre. Simonetta è stata sepolta nel cimitero comunale di Genzano di Roma.

L’ufficio dell’A.I.A.G. si trovava in un prestigioso edificio degli anni ’30, ubicato nel quartiere Della Vittoria, con un cortile centrale dotato di fontana. Il portiere dell’edificio era Pietro Vanacore, soprannominato Pietrino, che viveva con la moglie Giuseppa De Luca, detta Pina. Gli uffici dell’A.I.A.G. erano situati al terzo piano, scala B, appartamento numero 7.

Nella stessa scala B abitava Cesare Valle, l’architetto che aveva progettato l’edificio, assistito dal portiere Pietrino Vanacore. Precedentemente, nel 1984, nello stesso stabile era stata trovata morta Renata Moscatelli, soffocata con un cuscino, in circostanze rimaste irrisolte dopo un’inchiesta fallita.

Il delitto

Il 7 agosto 1990, Simonetta Cesaroni trascorre l’ultima giornata di lavoro presso la Reli Sas in via Giovanni Maggi 109. La mattina, discute delle ferie con Salvatore Volponi, e concorda di fare uno squillo intorno alle 18.20 per aggiornarlo sullo stato del lavoro. Volponi, nel pomeriggio, sarà nella tabaccheria che gestisce con la moglie alla stazione Termini.

Intorno alle 15.00, Simonetta esce dalla sua abitazione di via Serafini 6, accompagnata dalla sorella Paola a bordo di una Fiat 126C. Si dirigono verso la fermata metropolitana Subaugusta, distante poco più di un chilometro. Il tragitto completo, dalla fermata Subaugusta a Lepanto, impiega circa quaranta minuti.

Stimando l’ingresso in ufficio intorno alle 16.00, gli investigatori stabiliscono che Simonetta ha utilizzato le chiavi fornite da Volponi per aprire l’ufficio, che quel giorno è chiuso al pubblico. Alle 17.15, l’ultimo indizio della sua presenza è una telefonata a Luigina Berrettini riguardo al lavoro. Tuttavia, alle 18.20, non chiama Volponi come concordato. La sua assenza preoccupa i familiari, che la aspettano a casa per le 20.00.

Alle 21.30, la sorella Paola avvia le ricerche. Salvatore Volponi viene contattato per ottenere il numero di telefono degli uffici A.I.A.G. per assicurarsi che Simonetta stia bene. Volponi non conosce il numero, e Paola, accompagnata dal fidanzato Antonello Barone, si reca a casa di Volponi per chiedere aiuto. Insieme si dirigono a via Poma 2, dove, alle 23.30 circa, aprono il portone degli uffici A.I.A.G. con l’aiuto della moglie del portiere. Trovano Simonetta senza vita, uccisa con 29 coltellate.

Dalle 16.00 alle 20.00, i portieri dell’edificio di via Poma 2 si riuniscono nel cortile, ma nessuno segnala l’ingresso di persone dall’entrata principale. Dopo il contatto telefonico delle 17.30 con Simonetta, si presume che un uomo pericoloso sia negli uffici A.I.A.G. Secondo gli investigatori, Simonetta tenta di sfuggire al suo aggressore, muovendosi dalla stanza a sinistra, dove lavorava, fino a quella opposta a destra, dove verrà ritrovata.

L’aggressore la colpisce al volto, la immobilizza a terra e la sottopone a ulteriori violenze. Simonetta viene tramortita, ma tenta di resistere. L’assalitore prende un tagliacarte e la pugnala 29 volte, con colpi di circa 11 centimetri di profondità ciascuno. I colpi sono distribuiti su viso, corpo e zona genitale. Alcuni indumenti e effetti personali di Simonetta, tra cui orecchini, anello, bracciale e girocollo d’oro, vengono portati via. Simonetta viene lasciata nuda, con il reggiseno allacciato ma calato verso il basso, il seno scoperto e il top adagiato sul ventre a coprire le ferite più gravi. Gli indizi personali, come le chiavi dell’ufficio, vengono sottratti.

Le indagini
La scena del delitto

Le indagini sulla scena del delitto di Via Poma hanno avuto inizio la sera del 7 agosto con il primo sopralluogo condotto dal vicequestore Sergio Costa, che al tempo dei fatti era in servizio al SISDE e genero del capo della Polizia Vincenzo Parisi.

Nel corso di questo primo esame dell’appartamento, la vittima è stata scoperta stesa parzialmente svestita negli uffici della A.I.A.G. di via Poma numero 2. Il corpo presentava numerosi segni di ferite da armi da taglio, localizzate a giugulare, cuore, aorta, fegato e occhi. La vittima era distesa supina sul pavimento, con la testa rivolta a destra, il braccio sinistro esteso verso l’alto e il braccio destro leggermente piegato, con le dita della mano flesse ad artiglio. Nonostante le molteplici coltellate, le tracce di sangue erano limitate: dietro la vittima, sul pavimento in marmo, era visibile un alone, suggerendo un tentativo di pulizia di una macchia di sangue.

Nelle altre stanze non sono emerse evidenze di colluttazione, e tutto era in ordine senza segni di un eventuale trascinamento del corpo. Gli investigatori hanno concluso che il delitto si è verificato nella stanza in cui la vittima è stata ritrovata. Tuttavia, sono stati individuati minimi segni di sangue anche nella stanza di Simonetta, sulla tastiera del telefono, e tracce di sangue sono state rilevate sulla maniglia della porta d’ingresso della stanza del delitto. L’analisi del sangue ha identificato un uomo con gruppo sanguigno A come la fonte delle tracce.

Nella stanza del delitto è stato rinvenuto un pezzo di carta con un appunto che riportava la scritta “CE” e un disegno di un pupazzetto a forma di margherita con la scritta “DEAD OK” in basso a destra. In seguito, nel 2008, durante il programma televisivo “Chi l’ha visto?“, è stato rivelato che tale disegno era stato realizzato da uno degli agenti di polizia intervenuti la notte del delitto, dimenticandolo successivamente sul luogo.

L’autopsia

Durante l’autopsia è emerso che la vittima presentava diverse ferite da taglio, concentrate principalmente sul volto, al collo, nel torace e nell’area pubico-genitale, che hanno causato la sua morte tra le 18 e le 18.30.

Le ferite sono state provocate da un’arma bianca a punta e taglio, con lama bitagliente ma non recidente. La lama presenta lati bombati e curvi, non affilati, e la penetrazione è avvenuta per pressione e per la punta aguzza.

Il volto mostra una colorazione bluastro uniforme, con ecchimosi e gonfiore nella zona dell’emivolto destro e del padiglione auricolare. Vi sono sei ferite nel volto, tutte curvate e oblique, in corrispondenza delle strutture ossee orbitali.

Dettagli delle ferite
  • Al collo è presente una ferita trasfissa, con ingresso ed uscita.
  • Nel torace ci sono otto ferite.
  • Nella zona pubico-genitale quattordici ferite.
  • Non sono stati riscontrati segni di violenza sessuale.

È presente un’escoriazione profonda sul capezzolo sinistro. Le mani sono pulite, le unghie lunghe, curate e intatte, senza segni di graffi. Non sono stati rilevati alcol o sostanze stupefacenti nel corpo.

Non è stata investigata una ferita particolare, di tipo bifido, sotto i genitali, né sono stati analizzati eventuali segni di saliva attorno al capezzolo sinistro.

Sospettati
Pietrino Vanacore

Durante l’indagine sulla morte di Simonetta Cesaroni, i poliziotti esaminano attentamente il palazzo, ma non trovano gli indumenti mancanti della vittima. Dai racconti dei testimoni emerge che Simonetta era sola il 7 agosto 1990 e che nessuno è stato visto entrare nella scala B dopo che la sorella l’ha lasciata alla metropolitana.

Gli psicologi della polizia, analizzando la scena del crimine, ipotizzano che l’assassino abbia cercato di violentare la vittima, ma abbia fallito e abbia reagito con violenza. Tuttavia, i tentativi di pulire la scena del crimine e nascondere il corpo sono stati interrotti.

Le testimonianze indicano che Pietrino Vanacore, il portiere dell’edificio, non si trovava nel cortile durante l’orario del delitto. Sospetti si concentrano su di lui quando emerge che ha acquistato una smerigliatrice angolare poco prima del delitto e che sul suo pantalone sono state trovate macchie di sangue, successivamente attribuite alle sue emorroidi.

  • Vanacore viene arrestato ma rilasciato dopo 26 giorni, quando le tracce di sangue risultano essere sue e non di Simonetta.
  • Anche il DNA trovato sulla scena del crimine non lo incrimina.
  • Nel 1991, le accuse contro di lui vengono archiviate.

Nel 2009, durante un’indagine su un altro caso, si ipotizza che qualcuno sia entrato nell’appartamento dopo l’omicidio, inquinando la scena del crimine. Anche in questa occasione, le indagini su Vanacore non portano a nulla.

Il suicidio di Pietrino Vanacore

La notte tra l’8 e il 9 marzo 2010, a 20 anni dal delitto di Simonetta Cesaroni, Pietrino Vanacore, l’ex portiere di via Poma, si toglie la vita.

Si reca in località Torre dell’Ovo, vicino a Taranto, dove si lega ad un albero con una fune e si lascia affogare in un corso d’acqua. Lascia un cartello con la scritta: “20 anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio”.

Tre giorni dopo, Vanacore avrebbe dovuto testimoniare al processo per l’omicidio di Simonetta Cesaroni a carico di Raniero Busco.

Il legale di Busco sostiene che Vanacore si è suicidato perché non se la sentiva di testimoniare e sapeva chi fosse il vero colpevole, ma non poteva parlare.

Le indagini sulla morte di Vanacore sono state archiviate nel 2011. L’inchiesta ha stabilito che Vanacore si è ucciso di sua spontanea volontà perché non sopportava più l’invadenza del caso di via Poma nella sua vita privata.

Federico Valle

Nel marzo del 1992, un austriaco di nome Roland Voller rivela di avere informazioni sull’omicidio di Simonetta Cesaroni. Secondo il suo racconto, nel maggio 1990, durante una telefonata accidentale con Giuliana Ferrara Valle, ex moglie di Raniero Valle, figlio dell’architetto Cesare Valle, quest’ultima si confessa preoccupata per il figlio Federico. Il giovane era andato a trovare il nonno Cesare Valle, ma non era tornato a casa.

Successivamente, Giuliana Ferrara Valle racconta a Voller che Federico è tornato a casa quella sera con le mani sporche di sangue e una ferita alla mano. Tuttavia, dopo qualche giorno, interrompe il contatto con Voller. La testimonianza di Voller porta gli inquirenti a indagare su Federico Valle come principale sospettato.

Federico, proclamandosi estraneo ai fatti, si sottopone al test del DNA che lo scagiona. Anche tre persone forniscono un alibi a suo favore. Nonostante ciò, il magistrato Catalani ordina una perizia sul corpo di Federico per individuare eventuali segni di difesa da parte di Simonetta Cesaroni.

Alcuni esperti affermano che il sangue trovato sulla maniglia della porta corrisponde a un DNA diverso da quello di Federico. Tuttavia, altri esperti non confermano questa teoria. Catalani e il sostituto procuratore generale Calabrese continuano a indagare, mettendo in dubbio l’alibi di Valle.

Vengono avanzate varie ipotesi, incluso un presunto coinvolgimento di Pietrino Vanacore come complice di Federico Valle. Tuttavia, mancano prove concrete per procedere con le accuse.

Infine, nel giugno del 1993, Federico Valle viene scagionato da ogni accusa, e si scopre che Roland Voller, l’informatore iniziale, è un truffatore professionista con informazioni non attendibili sul caso.

Raniero Busco

Nel giugno del 2004, i carabinieri del RIS di Parma, su disposizione del pm Roberto Cavallone, effettuano delle indagini nel lavatoio condominiale della scala B di via Poma. Vengono trovate delle tracce che, dopo analisi, si scopre non essere sangue e non sono collegate al delitto Cesaroni. Nel febbraio del 2005 viene prelevato il DNA da 30 persone sospettate del delitto, tra cui Raniero Busco, all’epoca fidanzato di Simonetta. I loro DNA vengono confrontati con le tracce biologiche trovate sui vestiti intimi di Simonetta.

Nel settembre del 2006, diversi oggetti appartenenti a Simonetta e della stanza in cui avvenne il delitto vengono analizzati, così come un vetro dell’ascensore, trovato sporco di sangue nel 1990.

Le tracce di saliva trovate sui vestiti intimi di Simonetta corrispondono solo al DNA di Raniero Busco, che è stato analizzato due volte confermando la sua presenza. Raniero Busco diventa quindi un indiziato ufficiale per l’omicidio di via Poma e nel settembre dello stesso anno viene iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario.

Nel 2008, Paola Cesaroni, la sorella di Simonetta, dichiara che Simonetta indossava biancheria intima pulita il giorno del delitto. Viene trovata una traccia di sangue sulla porta della stanza in cui Simonetta fu uccisa, una commistione di sangue femminile e maschile. Gli analisti isolano 8 alleli che corrispondono al DNA di Raniero Busco mescolato con quello di Simonetta.

Questi 8 alleli sono stati confrontati con i DNA degli altri 29 sospettati, risultando incompatibili con tutti gli altri. Nel processo di primo grado concluso nel 2011, Busco viene condannato; nel processo di appello concluso nel 2012 viene assolto, con l’assoluzione confermata dalla Cassazione nel 2014.

Le piste alternative
L’ipotesi del serial killer

Negli anni 2000, il magistrato Otello Lupacchini e il giornalista Max Parisi, dopo uno studio su dodici casi di ragazze scomparse e uccise a Roma tra il 1982 e il 1990, avanzarono l’ipotesi che l’omicidio di Simonetta Cesaroni fosse stato l’ultimo di una serie di dieci o dodici omicidi compiuti da un unico serial killer. Questo individuo avrebbe causato la morte di altre dieci ragazze, tutte nella stessa zona di Roma e con modalità di assassinio molto simili. Secondo Lupacchini e Parisi, tra le vittime di questo presunto serial killer ci sarebbero anche Katy Skerl (uccisa nel 1984), così come i celebri casi delle sparizioni di Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi avvenute nel 1983.

La pista del Videotel e i presunti segreti dell’AIAG

Poche settimane dopo il proscioglimento definitivo di Pietrino Vanacore e Federico Valle, avvenuto il 30 gennaio 1995, una lettera anonima giunse alla Procura di Roma. Questa lettera suggeriva di indagare sulla pista del Videotel, un servizio che permetteva di comunicare tramite computer all’inizio degli anni novanta, simile all’attuale Internet. Gli inquirenti avevano esplorato questa pista per alcuni anni, ipotizzando che Simonetta Cesaroni potesse aver utilizzato il computer dell’ufficio di via Poma per entrare in contatto con altri utenti. Secondo questa teoria, Simonetta avrebbe potuto conoscere casualmente il suo assassino, al quale aveva dato un appuntamento per il pomeriggio del 7 agosto 1990.

Alcuni testimoni affermarono di aver riconosciuto Simonetta in una conversazione su Videotel con una persona che si firmava “Veronica”. Un’altra testimonianza riguardava un utente del Videotel che si firmava “Dead”, il quale, dopo il 7 agosto, dichiarò di aver ucciso Simonetta Cesaroni, rivelandolo a tutti gli utenti. Tuttavia, questa pista si rivelò infondata: il computer di lavoro di Simonetta era solo un terminale di videoscrittura e non era possibile accedere ai servizi Videotel. Inoltre, Simonetta non possedeva un computer a casa.

Prima della svolta investigativa finale nel giugno 2004, emersero alcuni fatti misteriosi legati alla sede AIAG di via Poma, presieduta all’epoca dall’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno. Circolarono voci secondo cui l’ufficio di via Poma sarebbe stato un luogo di copertura per alcune attività dei servizi segreti italiani. Si scoprì che Roland Voller, un commerciante austriaco e informatore della polizia che aveva accusato falsamente Federico Valle del delitto, aveva probabili collegamenti con ambienti dei servizi segreti. Voller fu trovato in possesso di documenti riservati riguardanti il delitto dell’Olgiata, avvenuto vicino a Roma nel luglio del 1991. Tuttavia, questi misteri non portarono a nessun riscontro concreto con i fatti legati all’omicidio di Simonetta.

Un’altra ipotesi investigativa suggeriva che l’omicidio fosse collegato a presunti traffici illeciti compiuti da alcuni membri dei servizi segreti negli anni novanta, in particolare in Somalia. Simonetta Cesaroni, che era stata incaricata di stipulare contratti per conto di alcune società al di fuori della sua normale professione, sarebbe stata a conoscenza di queste attività illecite. Questa ricostruzione collegava inoltre l’omicidio della ragazza al caso di Mario Ferraro, colonnello del Sismi trovato impiccato nella sua abitazione il 16 luglio 1995.

I presunti intrecci con la Banda della Magliana ed i servizi segreti

Tra le piste alternative seguite subito dopo l’omicidio vi è anche quella di un omicidio voluto dalla Banda della Magliana ed effettuato materialmente dai servizi segreti italiani con la complicità del Vaticano. Si dice infatti che Simonetta Cesaroni avesse scoperto quasi per caso negli archivi della stessa A.I.A.G. degli importantissimi e segretissimi documenti che testimoniavano dei presunti favori fatti dalla stessa A.I.A.G. e altri enti edili a favore della Banda della Magliana con il benestare del Vaticano, territorio in cui vi erano alcuni edifici “prestati” alla banda, con la complicità dei servizi segreti.

La pista in un primo momento sembrava la più “veritiera” soprattutto quando alcuni testimoni dissero di aver notato poco dopo l’omicidio 3 personaggi (mai identificati) esattamente sotto la palazzina di Cesaroni che per il loro modo di fare e per il loro abbigliamento potevano essere membri dei servizi segreti. Infatti, pochissimo tempo prima erano stati scoperti dei legami tra la Banda della Magliana e i servizi segreti, dove era stato rilevato come ormai avessero dei forti rapporti con la stessa banda.

Questa pista successivamente venne gradualmente abbandonata in quanto le indagini non portarono a nulla di provato e questi eventuali documenti scoperti da Cesaroni non sono stati mai trovati.

I processi

Nell’aprile 2009 la nuova indagine sul delitto di Via Poma si conclude. A maggio, il Pubblico ministero Ilaria Calò deposita gli atti di chiusura dell’indagine, chiedendo il rinvio a giudizio di Raniero Busco per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà. L’udienza preliminare per decidere sul rinvio a giudizio di Raniero Busco si terrà il 24 settembre 2009, dinanzi al GUP Maddalena Cipriani. Il GUP decide di spostare l’udienza al 19 ottobre, per poter prima ascoltare i cinque consulenti che hanno eseguito la perizia sull’arcata dentaria di Busco e il confronto tra l’arcata dentaria dell’imputato e il morso al capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni. Sarà convocato anche il dottor Emilio Nuzzolese (dentista esperto in odontologia forense), consulente tecnico di Raniero Busco.

Il GUP ascolta la relazione dei cinque consulenti (due medici legali, due odontoiatri, un capitano dei RIS: Ozrem Carella Prada, Stefano Moriani, Paolo Dionisi, Domenico Candida, Claudio Ciampini) del pubblico ministero Ilaria Calò. I periti espongono i risultati della loro analisi sull’arcata dentaria di Raniero Busco e dimostrano, anche attraverso prove fotografiche, la perfetta compatibilità tra i segni del morso sul capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni e i denti dell’imputato.

Il GUP ascolta anche la relazione del consulente nominato dalla difesa di Busco, il dottor Emilio Nuzzolese (odontoiatra forense). Il perito Nuzzolese definisce la lesione sul capezzolo della vittima come suggestiva di un ‘morso parziale’ e più precisamente come il possibile risultato di segni lasciati da alcuni denti, compatibile solo con l’azione di un ‘morso laterale’ per il quale non è possibile giungere ad alcuna attribuzione. Peraltro evidenzia, dopo un’analisi odontologico-forense della dentatura di Raniero Busco, che le incisioni dentali di quest’ultimo, se di morso si tratta, sarebbero state completamente differenti, escludendo quindi che sia il Busco l’autore della lesione sul capezzolo.

L’udienza preliminare viene aggiornata al 9 novembre 2009: in quella data, il GUP accoglie la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal PM Ilaria Calò nei confronti di Raniero Busco. Busco deve quindi sostenere un processo per l’omicidio della sua ex fidanzata Simonetta Cesaroni. Viene stabilito che il dibattimento si aprirà il 3 febbraio 2010 nell’aula bunker del carcere di Rebibbia dinanzi alla terza sezione della corte d’assise del tribunale di Roma, presieduta dal giudice Evelina Canale, giudice a latere Paolo Colella, sei giudici popolari. L’accusa è di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà.

Su Raniero Busco emergono anche delle lacune sull’alibi per il primo pomeriggio del 7 agosto 1990. Non esiste traccia scritta di questo alibi in nessun documento investigativo dell’agosto 1990. Nel 2005, Busco ha dichiarato di aver trascorso le ore del delitto assieme a un suo amico, al quale stava riparando il motorino in una piccola officina sotto casa sua. Tuttavia, l’amico di Busco, chiamato a testimoniare, lo smentisce: il pomeriggio del 7 agosto 1990 non si trovava nell’officina vicino a casa Busco per la riparazione del motorino, poiché questo episodio era avvenuto il giorno prima, il 6 agosto. L’amico era in realtà in una casa di cura per anziani a Frosinone, perché era deceduta una sua zia. Inoltre, il teste mostra il certificato di morte della zia, che dimostra la verità del suo racconto. Quel giorno incontrò Busco fuori da un bar del quartiere Morena solo tra le 19:30 e le 19:45, al suo rientro a Roma da Frosinone.

Viene nuovamente presa in considerazione anche una testimonianza già rilasciata negli anni novanta da Giuseppa De Luca, la moglie del portiere Pietrino Vanacore. Giuseppa De Luca raccontò alla polizia di aver visto uscire dalla scala B di via Poma, la sera del 7 agosto 1990 alle ore 18:00, un giovane con un fagotto sul lato sinistro. Questo giovane procedeva verso l’uscita del palazzo a testa bassa, era alto circa un metro e ottanta e indossava pantaloni grigio scuro, una camicia verde scuro e un cappello con visiera. Giuseppa De Luca dichiarò che questa persona (vista da una distanza di circa 10 metri) le sembrò essere o il ragionier Fabio Forza, un inquilino del palazzo, o Salvatore Sibilia, all’epoca funzionario dell’A.I.A.G., che risultò essere a casa con la moglie all’ora dell’omicidio. Tuttavia, non poteva trattarsi del ragionier Forza, poiché il 7 agosto 1990 si trovava in vacanza all’estero, precisamente in Turchia. Anche se si trattò di uno sbaglio di persona, una sentenza giudiziaria stabilì che il racconto di Giuseppa De Luca avesse un fondo di verità e che i coniugi Vanacore non avessero motivo di mentire per attuare eventuali depistaggi d’indagine.

Questi elementi contribuirono a creare un quadro complesso attorno all’omicidio di Simonetta Cesaroni e alle indagini condotte su Raniero Busco. L’assenza di un alibi solido e le testimonianze contrastanti giocarono un ruolo cruciale nel processo che seguì. La vicenda rimase al centro dell’attenzione pubblica per anni, con continui sviluppi e colpi di scena che alimentarono il dibattito sull’identità dell’assassino e sulle circostanze della morte della giovane segretaria.

Il 26 gennaio 2011, al termine del processo di primo grado, Raniero Busco viene riconosciuto colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni e condannato a 24 anni di reclusione. Tuttavia, il 27 aprile 2012, al termine del processo di secondo grado, Busco viene assolto dall’accusa del delitto di Simonetta per non aver commesso il fatto. Le tracce di DNA vengono ritenute circostanziali e compatibili con residui che avrebbero potuto resistere a un lavaggio blando della biancheria. La madre di Simonetta dichiarò di lavare soprattutto a mano con sapone da bucato. Inoltre, il morso sul capezzolo si rivela essere un livido di altro tipo. Viene anche confermato l’alibi di Busco, che si trovava al lavoro al momento dell’omicidio.

A seguito del ricorso in Cassazione della Procura, viene fissata la prima udienza del processo di legittimità il 26 febbraio 2014. In questa data, le toghe del terzo grado di giudizio assolvono definitivamente Busco. Al termine della lettura della sentenza, Busco commenta: «Sette anni della mia vita sono stati distrutti. Posso capire cosa prova la famiglia, che dopo 24 anni non c’è un colpevole. Ma tutti dovrebbero comprendere anche il mio dramma. Adesso voglio essere lasciato in pace». Pertanto, il delitto rimane senza colpevoli.

La riapertura delle indagini (2022)

Nel mese di marzo 2022, la procura di Roma ha riaperto le indagini sul caso di Simonetta Cesaroni, un omicidio avvenuto nel 1990. Questa volta, i sospetti si concentrano su Francesco Caracciolo di Sarno, l’ex presidente dell’AIAG (Associazione Italiana Alberghi della Gioventù). I motivi per cui l’avvocato è sotto inchiesta sono legati al momento delle telefonate che lo avrebbero informato della morte di Simonetta e alla credibilità del suo alibi fornito durante il primo interrogatorio.

L’avvocato Caracciolo non possedeva un telefono cellulare e quindi utilizzava il numero del suo fattore, Mario Macinati, per essere contattato in caso di emergenze. Giuseppe Macinati, figlio di Mario, ha rivelato che il 7 agosto 1990 ricevette una telefonata dagli Ostelli della gioventù, in cui si comunicava la morte di una persona. Secondo Giuseppe, queste telefonate arrivarono tra le 17:30 e le 20:30, mentre il padre era fuori casa e sarebbe tornato intorno alle 20:45. Di conseguenza, la telefonata non poteva provenire dagli inquirenti, poiché il corpo di Simonetta Cesaroni fu scoperto dalla polizia almeno tre ore dopo.

Oltre al mistero delle telefonate, sorgono dubbi sull’alibi di Francesco Caracciolo. L’avvocato possedeva due appartamenti vicino a via Poma e una tenuta di campagna. Ha dichiarato che il 7 agosto 1990 si trovava nella sua tenuta e che era uscito per accompagnare la figlia e alcune sue amiche all’aeroporto. Tuttavia, queste affermazioni sono in contrasto con quelle della portiera dell’appartamento romano di Caracciolo, Bianca Limongiello. Secondo un’informativa della Digos del 1990, la portiera avrebbe visto l’avvocato uscire dal palazzo e rientrare nell’orario indicato dai media come quello presunto dell’omicidio, descritto come affannato e con un pacco mal avvolto. La signora Limongiello ha dichiarato di essere disposta a riferire quanto visto agli inquirenti, ma afferma di non essere mai stata sentita.

Nel 2015, quando è stata nuovamente interrogata, Limongiello ha smentito quanto riportato dall’informativa della Digos, eccetto per l’orario di rientro, che sarebbe avvenuto verso le 18 e in compagnia di un uomo mai visto prima.

La riapertura delle indagini ha portato alla luce nuovi elementi che potrebbero rivelarsi significativi per il caso irrisolto dell’omicidio di Simonetta Cesaroni.

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