Sempre più aziende fanno marcia indietro sulle politiche DEI (diversità, equità e inclusione)

Sempre più aziende stanno rivedendo o abbandonando le loro politiche di diversità, equità e inclusione (DEI). Tra queste ci sono nomi noti come Ford, Harley Davidson e il produttore di birra Coors

Sempre più aziende fanno marcia indietro sulle politiche DEI (diversità, equità e inclusione)

Sempre più aziende fanno marcia indietro sulle politiche DEI (diversità, equità e inclusione). Sempre più aziende stanno rivedendo o abbandonando le loro politiche di diversità, equità e inclusione (DEI). Tra queste ci sono nomi noti come Ford, Harley Davidson e il produttore di birra Coors, che hanno recentemente ammesso di aver modificato o eliminato alcune delle loro iniziative in questo campo. Questo fenomeno non riguarda solo le grandi multinazionali americane, ma sta coinvolgendo molti brand in tutto il mondo. Il passo indietro da parte di queste aziende solleva domande sull’efficacia di tali politiche e sull’impatto che hanno avuto sull’identità aziendale e sul merito.

Le politiche DEI sono state introdotte per promuovere contesti lavorativi più inclusivi e garantire uguali opportunità per tutti, indipendentemente da genere, etnia, orientamento sessuale o disabilità. Queste iniziative hanno incluso misure come il congedo di maternità e paternità condiviso, le cosiddette “quote rosa” per garantire una maggiore rappresentanza delle donne, e l’adozione di un linguaggio inclusivo sia sul posto di lavoro che nelle comunicazioni aziendali. L’obiettivo principale è sempre stato quello di ridurre le discriminazioni e permettere che il talento e il merito emergessero senza pregiudizi legati all’appartenenza a una minoranza.

Storicamente, le aziende statunitensi sono state tra le prime ad adottare queste politiche. Negli Stati Uniti, per esempio, è stato creato il Corporate Equality Index (CEI), un sistema di valutazione che certifica le aziende in base al loro livello di inclusione nei confronti delle persone LGBTQIA+. Questo indice è stato sviluppato dall’associazione Human Rights Campaign (HRC), la più grande organizzazione americana che difende i diritti della comunità LGBTQIA+. Va anche ricordato che la HRC, pur avendo sostenuto sia candidati democratici che repubblicani, negli ultimi anni ha appoggiato pubblicamente Kamala Harris, la vice presidente degli Stati Uniti. Questo ha portato alcune frange estremiste del Partito Repubblicano a criticare aspramente l’associazione e, di conseguenza, il CEI.

L’allontanamento di alcune aziende dalle politiche DEI è visto da molti come una reazione a una polarizzazione crescente all’interno della politica e della società. Le iniziative di inclusione, inizialmente concepite per promuovere l’uguaglianza e il merito, sono ora spesso al centro di un dibattito più ampio che riguarda non solo l’ambito aziendale, ma anche le questioni politiche e sociali.

La marcia indietro

Harley Davidson e Ford sono tra i marchi più noti che hanno deciso di modificare le loro politiche di diversità e inclusione. Il caso di Harley Davidson ha avuto un grande impatto mediatico quando, il 19 agosto, l’azienda ha annunciato su Twitter di aver abbandonato le politiche DEI già da aprile 2024. Il tweet ha specificato che l’azienda non applica più quote di assunzione basate sulla diversità e non segue criteri di inclusione nella selezione dei fornitori. Inoltre, Harley Davidson ha dichiarato che non parteciperà più al Corporate Equality Index della Human Rights Campaign (HRC), una classifica che valuta le aziende in base alle loro politiche di inclusione, in particolare verso la comunità LGBTQIA+.

L’azienda ha anche affermato di voler limitare i propri investimenti ad attività direttamente collegate al suo core business. Questo è stato interpretato come un disimpegno da eventi pubblici come i Pride, una decisione che ha suscitato numerose reazioni. Il marchio ha preso questa posizione dopo essere stato attaccato sui social media da gruppi repubblicani organizzati, che avevano accusato l’azienda di discriminare i dipendenti sulla base delle sue politiche di inclusione.

Anche Ford ha scelto di rivedere le sue politiche DEI, anche se la notizia è trapelata attraverso una nota interna dell’amministratore delegato Jim Farley. In questo documento, Farley ha spiegato che l’azienda preferisce concentrare le sue risorse e i suoi sforzi sui propri clienti, dipendenti e comunità, piuttosto che esprimersi pubblicamente su temi controversi. Ha ribadito che Ford non assume e non premia il personale in base a quote di diversità, e che l’azienda abbandonerà anche il Corporate Equality Index della Human Rights Campaign. La nota evidenzia una chiara volontà di evitare coinvolgimenti su questioni considerate politicamente divisive.

Oltre a Harley Davidson e Ford, anche altri brand come Lowe’s, John Deere, Jack Daniel’s e Coors hanno adottato una simile posizione. Questi marchi hanno rinunciato alla partecipazione nel Corporate Equality Index, nonostante in passato fossero stati riconosciuti tra i più inclusivi. Ford, per esempio, aveva ottenuto un punteggio perfetto nel CEI, un riconoscimento che ora l’azienda ha scelto di abbandonare.

Di fronte a queste decisioni, la Human Rights Campaign ha reagito chiedendo alla sua comunità di contattare i marchi coinvolti per convincerli a tornare sui loro passi. Nel sito dell’associazione si legge: “Alcune aziende americane hanno recentemente voltato le spalle alle persone LGBTQ+, alle persone di colore, alle donne e alla comunità delle persone con disabilità, abbandonando i loro impegni di lunga data verso le migliori pratiche in materia di diversità e inclusione sul posto di lavoro. Inviamo un messaggio forte a questi dirigenti aziendali: non torneremo indietro e siamo qui per restare!”.

Uno dei principali sostenitori di questa tendenza anti-DEI è Robby Starbuck, un esponente repubblicano molto attivo sui social media. Starbuck ha iniziato la sua carriera come regista di videoclip musicali, lavorando con artisti come Snoop Dogg e Megadeth. Tuttavia, nel corso degli anni, ha iniziato a sostenere teorie complottiste e posizioni estremiste, che hanno progressivamente danneggiato la sua carriera artistica. Tra le sue affermazioni più controverse c’è l’idea, espressa in un documentario, che l’esposizione al pesticida atrazina rendesse “gay” le rane, una teoria smentita dalla comunità scientifica.

Starbuck ha anche criticato aspramente il movimento Pride, definendolo un tentativo di “indottrinamento”, e ha persino insinuato che la morte dell’attore Matthew Perry fosse collegata al vaccino contro il Covid-19. Dopo il fallimento del suo tentativo di entrare al Congresso come rappresentante del Tennessee, Starbuck si è concentrato sulla sua carriera politica come influencer repubblicano, accumulando un grande seguito sui social media. Oggi è considerato una delle voci principali nella lotta contro quella che definisce la cultura “woke“, un termine che i movimenti di destra utilizzano per criticare l’attenzione alle politiche di inclusione e uguaglianza.

Starbuck è stato in grado di organizzare campagne mirate contro le aziende che adottano politiche di diversity & inclusion, raccogliendo migliaia di sostenitori che inviano richieste alle aziende per abbandonare tali iniziative. Sostiene che le politiche DEI, come le quote di assunzione basate sulla diversità, vanno contro i valori tradizionali e la meritocrazia, danneggiando il merito e favorendo le minoranze a scapito del resto della popolazione. Molti dei marchi che hanno lasciato il Corporate Equality Index lo hanno fatto proprio dopo essere stati presi di mira dalle campagne organizzate dai follower di Starbuck.

I precedenti

La recente decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso “Students for Fair Admissions v. Harvard“, emessa nel giugno 2023, ha avuto un grande impatto sulle politiche delle aziende americane. La Corte, dominata da una maggioranza conservatrice, ha dichiarato illegali alcune pratiche adottate dalle università, come Harvard, che consideravano la razza tra i criteri per l’ammissione degli studenti. Queste politiche, note come “affirmative action“, erano state ideate per contrastare le disuguaglianze educative, permettendo a gruppi svantaggiati, spesso di minoranze etniche e sociali, di accedere a opportunità che altrimenti sarebbero state precluse.

Questa sentenza ha sollevato timori anche in ambito aziendale, poiché diverse organizzazioni legate al Partito Repubblicano, tra cui America First Legal, hanno affermato che il precedente legale potrebbe estendersi anche alle politiche di inclusione e diversità adottate dalle aziende private. Sebbene questa interpretazione sia chiaramente di parte, essa ha creato preoccupazione tra le aziende, che temono di diventare bersaglio di cause legali promosse da gruppi conservatori. Va sottolineato, però, che le politiche DEI (Diversity, Equity, and Inclusion) non si limitano all’introduzione di quote, ma comprendono anche attività come la formazione, la rappresentazione delle minoranze e l’ascolto delle loro esigenze.

In questo clima di incertezza, anche personalità influenti come Elon Musk si sono espresse apertamente contro le politiche DEI. Il CEO di Tesla, SpaceX e X (precedentemente Twitter) ha spesso criticato queste iniziative, definendole un ostacolo al riconoscimento del merito e associandole alla cultura “woke“. Non molto tempo fa, Musk ha twittato “DEI must die” (DEI deve morire), manifestando la sua posizione in modo esplicito. Queste dichiarazioni hanno alimentato il dibattito, anche perché all’interno delle sue stesse aziende sono emerse critiche per le sue politiche considerate tossiche nei confronti dei dipendenti, e Tesla ha cancellato tutte le comunicazioni relative alla DEI dal proprio sito web.

Tuttavia, non tutti condividono questa visione. Barbara De Micheli, esperta di giustizia sociale e direttrice del Master in Diversity Management and Gender Equality presso la Fondazione Giacomo Brodolini, ha difeso l’importanza delle politiche DEI. Secondo De Micheli, tali iniziative non ostacolano il talento, ma lo valorizzano, poiché consentono di superare i pregiudizi e di valutare le capacità reali delle persone senza influenze esterne. De Micheli ha inoltre sottolineato come il movimento anti-DEI nasca proprio negli Stati Uniti, un paese storicamente considerato un punto di riferimento in materia di diritti e uguaglianza. Questo segnala una preoccupante inversione di tendenza, che potrebbe avere ripercussioni anche a livello internazionale.

In Europa, ad esempio, si sono già registrati segnali in questa direzione. La nuova Commissione europea, presentata da Ursula von der Leyen, non prevede più la figura del commissario per l’uguaglianza. Il tema è stato infatti accorpato al portafoglio della commissaria per la gestione delle crisi, Hadja Lahbib. Secondo De Micheli, questo cambiamento è significativo e deve essere osservato con attenzione nei prossimi mesi, poiché la scomparsa di un commissario dedicato all’uguaglianza sembra avere una valenza politica. Tuttavia, De Micheli ha anche ricordato che, in Italia, la Costituzione sancisce il principio di uguaglianza all’articolo 3, il che fornisce una solida base legale per lo sviluppo delle iniziative di DEI, indipendentemente dalle tendenze politiche.

Nonostante molte aziende stiano cercando di evitare boicottaggi da parte di consumatori conservatori, potrebbero subire un contraccolpo dalle persone sensibili a queste tematiche. Secondo i dati della Human Rights Campaign, più dell’80% degli adulti LGBTQIA+ boicotterebbe un’azienda che riduce le proprie politiche di inclusione e oltre la metà inciterebbe altre persone a fare lo stesso. Questo suggerisce che mentre alcune aziende cercano di proteggere il loro business da reazioni avverse, rischiano di perdere il sostegno di una fetta importante del loro pubblico, in particolare dei giovani, come i millennial e la Gen Z, che attribuiscono grande valore alla diversità e all’inclusione.

D’altro canto, va considerato che molte delle aziende che stanno abbandonando le politiche DEI operano in settori in cui il pubblico di riferimento è prevalentemente composto da uomini bianchi, eterosessuali e cisgender. Per queste aziende, la decisione di ridurre l’impegno verso la diversità potrebbe essere un rischio calcolato finalizzato a proteggere il proprio mercato in un contesto sempre più polarizzato. Tuttavia, gli effetti a lungo termine di queste scelte su dipendenti, clienti e società restano ancora da vedere.

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