Secondo l’Osservatorio Inps sulle prestazioni pensionistiche e i beneficiari nel 2023, quasi 4,8 milioni di pensionati in Italia ricevono una pensione inferiore a 1.000 euro al mese
Secondo l’Osservatorio Inps sulle prestazioni pensionistiche e i beneficiari nel 2023, quasi 4,8 milioni di pensionati in Italia ricevono una pensione inferiore a 1.000 euro al mese. Questo significa che circa tre pensionati su dieci si trovano a vivere con un reddito pensionistico al di sotto di questa soglia. Di questi, quasi 1,7 milioni percepiscono meno di 500 euro al mese, un importo significativamente inferiore alla soglia di povertà.
Il rapporto dell’Inps si concentra sulle singole prestazioni pensionistiche e sul reddito complessivo derivante dalle pensioni, senza considerare eventuali altre fonti di reddito dei pensionati. Tuttavia, i dati illustrano quanto sia ampia la fascia di coloro che incontrano difficoltà a far fronte alle spese quotidiane, faticando ad arrivare a fine mese.
Nonostante la presenza di molti pensionati con redditi bassi, il 38,4% dei pensionati percepisce oltre 2.000 euro al mese. Questa fascia, che rappresenta meno della metà dei pensionati, assorbe il 60% della spesa pensionistica complessiva. Complessivamente, la spesa per le pensioni nel 2023 ha superato i 347 miliardi di euro, con un incremento del 7,7% rispetto al 2022. Questo aumento è dovuto in gran parte all’adeguamento per recuperare l’inflazione. Le pensioni, dunque, continuano a rappresentare uno dei principali capitoli di spesa per lo Stato italiano.
Il rapporto conferma un divario significativo tra uomini e donne nei redditi da pensione, riflettendo le disuguaglianze presenti nel mercato del lavoro. Gli uomini, grazie a carriere lavorative più lunghe e retribuzioni mediamente più alte, possono contare su pensioni più elevate. Nel 2023, l’assegno pensionistico medio annuo percepito dagli uomini è del 35% superiore rispetto a quello delle donne: gli uomini ricevono in media 24.671 euro annui, mentre le donne 18.291 euro. Si prevede che con l’aumento dell’occupazione femminile, questo divario tenderà a ridursi, così come il numero di donne che si trovano a fare affidamento solo su pensioni assistenziali o di reversibilità.
Nel 2023, oltre tre milioni di donne pensionate percepiscono meno di 1.000 euro al mese, ovvero più di una su tre. Di queste, quasi un milione (959.986 pensionate) riceve meno di 500 euro al mese, che rappresenta l’11,5% del totale delle pensionate.
Il governo ha previsto un intervento sulle pensioni minime, che riguarda però solo i trattamenti previdenziali, cioè quelli legati al versamento dei contributi, e non le pensioni assistenziali, come l’assegno sociale o le pensioni di invalidità non legate all’attività lavorativa. L’aumento previsto porterebbe gli assegni minimi da 614,77 euro al mese a 617,92 euro, coinvolgendo circa 1,8 milioni di pensionati. Tuttavia, questo intervento è stato definito una “beffa” dal leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, e considerato da parte dell’opposizione come una “elemosina” insufficiente a compensare la perdita del potere d’acquisto causata dall’inflazione.
Per quanto riguarda i pensionati che percepiscono assegni superiori a 5.000 euro lordi al mese, circa 400.000 persone ne beneficiano. Questi assegni, che sono generalmente basati su un elevato numero di anni di contributi e retribuzioni elevate, comportano una spesa maggiore rispetto ai pensionati con i redditi più bassi. In particolare, per le pensioni più alte si spende complessivamente circa 34,4 miliardi di euro, rispetto ai 33,5 miliardi destinati ai 4,8 milioni di pensionati con redditi più bassi.
In totale, le prestazioni pensionistiche erogate in Italia nel 2023 ammontano a 22.919.888. Di queste, la maggior parte (17.752.596) sono prestazioni IVS (Invalidità, Vecchiaia e Superstiti), mentre 627.143 sono prestazioni indennitarie e 4.540.149 sono pensioni assistenziali.
LE ALTRE NOTIZIE IN EVIDENZA SU “ECONOMIA”:
DEBITO PUBBLICO
MONEY – IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO E’ AL 29% IN MANI STRANIERE
Il debito pubblico italiano continua a crescere e al primo semestre del 2024 ha raggiunto oltre 2.947 miliardi di euro, un aumento di circa 100 miliardi rispetto all’anno precedente. L’Italia ha attualmente il secondo debito pubblico più elevato in Europa, rapportato al PIL, con un rapporto del 134,6% nel 2023, secondo una recente revisione dei dati forniti dall’Istat. Uno dei temi più rilevanti in questo contesto riguarda il rischio di una procedura di infrazione per eccessivo debito pubblico, poiché l’Italia non è riuscita a ridurre significativamente il proprio debito. Questo è diventato un argomento centrale nei dibattiti politici ed economici, soprattutto in vista della presentazione del prossimo Piano strutturale di bilancio. In merito, il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, ha dichiarato che l’obiettivo del governo è «non contribuire ad alimentare il debito pubblico per le nuove generazioni». Ma chi detiene oggi questo debito? Secondo i dati Eurostat del 2018, recentemente resi noti, solo il 29,4% del debito pubblico italiano è posseduto da investitori esteri, tra cui fondi e banche straniere. Rispetto agli altri Paesi europei, questa percentuale è relativamente bassa. Ad esempio, in Lituania, Lettonia e Austria, più dei due terzi del debito pubblico è detenuto da investitori esteri. Nei Paesi più grandi, come Spagna, Francia, Germania e Polonia, la quota detenuta all’estero varia tra il 45% e il 50%. I dati mostrano che è più probabile che il debito pubblico sia in mani straniere quando riguarda Paesi più piccoli o con economie considerate più affidabili, cosa che non si può dire per l’Italia, il cui debito è in gran parte detenuto a livello nazionale. Una porzione significativa del debito pubblico italiano, il 65,1%, è detenuta da banche e fondi italiani. In confronto, in altri Paesi europei questa percentuale è generalmente inferiore al 50%, e in alcuni, come Irlanda, Lettonia e Lituania, è sotto il 30%. Solo in Danimarca e Svezia le percentuali superano quelle italiane. Per quanto riguarda i cittadini italiani, solo una piccola parte del debito pubblico è direttamente nelle loro mani: circa il 5,6%. In altri Paesi, come Irlanda, Portogallo, Svezia e Ungheria, questa percentuale è più alta. In Ungheria, ad esempio, i cittadini detengono il 21,7% del debito pubblico. Nonostante possa sembrare un dato positivo che solo il 29% del debito pubblico italiano sia in mani straniere, in realtà ciò rappresenta una cifra significativa, corrispondente a circa 700 miliardi di euro, più del debito complessivo di alcuni piccoli Paesi europei. Inoltre, la grande quantità di Buoni del Tesoro Poliennali (BTP) detenuti dalle banche italiane le rende più vulnerabili in caso di una crisi sistemica. Un altro fattore di debolezza è che il 12,8% del debito pubblico italiano è composto da titoli con una scadenza inferiore a un anno. Questo significa che una parte considerevole del debito richiede rifinanziamenti frequenti, una situazione che potrebbe creare ulteriori difficoltà economiche se non gestita correttamente.
Altre notizie:
MONDO
SCENARIECONOMICI – L’INDIA STA PER SUPERARE IL GIAPPONE E RAGGIUNGERE IL QUARTO POSTO PER PRODOTTO INTERNO LORDO (DOPO USA, CINA E GERMANIA)
Secondo una recente stima del Fondo Monetario Internazionale (FMI), l’India è in procinto di sorpassare il Giappone per quanto riguarda il Prodotto Interno Lordo (PIL), aprendo le porte a una nuova epoca economica in Asia. Questo spostamento di posizione collocherebbe l’India al quarto posto mondiale per PIL, dietro solo agli Stati Uniti, alla Cina e alla Germania. Tuttavia, anche Berlino dovrà fare i conti con le conseguenze di questo cambiamento. Secondo le proiezioni del FMI, il PIL nominale dell’India dovrebbe raggiungere circa 4,3398 trilioni di dollari nel 2025, superando così il PIL giapponese stimato a 4,3103 trilioni di dollari nello stesso anno. Tale superamento avverrebbe con un anno di anticipo rispetto alle previsioni precedenti del FMI, che indicavano il 2026 come il momento del sorpasso. L’attuale deprezzamento dello yen giapponese sembra essere uno dei fattori che accelerano questo cambiamento, riducendo l’economia del Giappone in termini di dollari. Questo deprezzamento ha contribuito a eclissare il PIL giapponese rispetto a quello della Germania nel 2023, collocando il Giappone al quinto posto tra le economie mondiali. La rupia indiana, dal canto suo, è rimasta sostanzialmente stabile rispetto al dollaro sin dall’inizio del 2023, mantenendo un tasso di cambio di circa 83 rupie per dollaro. Tuttavia, ci sono segnali che suggeriscono un intervento significativo della Reserve Bank of India nel mercato valutario, come osservato nel rapporto del FMI del dicembre 2023. La banca centrale indiana ha respinto le critiche del FMI riguardo a un possibile intervento eccessivo nel mercato valutario, sostenendo che le analisi si basavano su tendenze a breve termine e non riflettevano pienamente la situazione economica complessiva. L’ascesa economica dell’India è stata notevole negli ultimi anni, nonostante le sfide della pandemia COVID-19. Il Paese ha visto una crescita significativa, trainata in parte dall’espansione della sua popolazione. Le previsioni della Reserve Bank of India indicano una crescita reale del PIL del 7% nell’anno fiscale 2024. Nonostante questi successi, il PIL nominale pro capite dell’India si attesta ancora a circa 2.000 dollari, una frazione rispetto alla Cina e vicino al Bangladesh. Tuttavia, la classe media indiana è in espansione, e si prevede che l’India supererà la Germania per diventare la terza economia mondiale entro il 2027.
Altre notizie:
MERCATO TUTELATO E LIBERO
LEGGO – CRC: CHI PASSA AL MERCATO LIBERO SI RITROVERA’ A PAGARE 1.776 EURO ANNUI IN PIU’
Secondo quanto riportato dal Centro di formazione e ricerca sui consumi (Crc), chi attiverà oggi un servizio di fornitura sul mercato libero dell’energia elettrica potrebbe vedersi infliggere un aumento fino a 1.776 euro all’anno rispetto alla bolletta media del Servizio a Tutele Graduali, che entrerà in vigore il 1 luglio. Il confronto delle offerte dei 7 gestori vincitori delle aste dell’Acquirente Unico per il Servizio a Tutele Graduali, rappresentanti il 70,49% del mercato, ha rivelato che le tariffe del mercato libero sono significativamente più elevate. I clienti che non scelgono un operatore del mercato libero passeranno automaticamente dal Maggiore Tutela al Servizio a Tutele Graduali, godendo di un risparmio stimato di circa 131 euro all’anno a utenza rispetto alle attuali tariffe del mercato tutelato. Tuttavia, per coloro che optano per il mercato libero, le differenze di prezzo sono evidenti. Chi sceglie un’offerta a prezzo variabile può aspettarsi un aumento annuo che va da un minimo di 162 euro a un massimo di 573 euro rispetto alle tutele graduali. Nel caso di un contratto a prezzo fisso, le tariffe sono ancora più alte, con un aumento annuo che varia da un minimo di 204 euro a un massimo di 1.776 euro rispetto alla bolletta media del Servizio a Tutele Graduali. Secondo il presidente del comitato scientifico del Crc e presidente onorario di Assoutenti, Furio Truzzi, questa situazione rappresenta un “doppio assurdo paradosso”, con i clienti del mercato libero che pagheranno tariffe più elevate rispetto alle tutele graduali, anche scegliendo lo stesso gestore. Inoltre, gli utenti vulnerabili che rimangono nel mercato tutelato subiranno un aumento medio di 131 euro all’anno rispetto al Servizio a Tutele Graduali. Truzzi ha anche sottolineato che coloro che sono passati al mercato libero e desiderano beneficiare delle tutele graduali a partire dal 1 luglio dovranno rientrare nella Maggior Tutela entro il 30 giugno, poiché non è previsto un passaggio diretto dal libero al Servizio a Tutele Graduali.
Altre notizie:
SUPERBONUS
SKYTG24 – APPROVATO IN VIA DEFINITIVA IL DECRETO SUL SUPERBONUS: NIENTE SGRAVIO E RATE IN 10 ANNI
La Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva il decreto legge sul Superbonus, trasformandolo in legge. Con 150 voti favorevoli e 109 contrari, il governo ha ottenuto la fiducia necessaria per procedere con le modifiche. Il Superbonus, come voluto dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, è stato modificato principalmente per quanto riguarda la dilazione delle rate, che ora saranno spalmate su dieci anni invece di quattro, per tutte le spese sostenute a partire da gennaio 2024. Questa modifica, con effetto retroattivo, è stata oggetto di accese discussioni. Inoltre, a partire da gennaio 2025, sarà vietata la compensazione per banche e assicurazioni dei crediti da bonus edilizi con i contributi Inps e Inail. Virginio Merola del Partito Democratico ha criticato duramente il decreto, definendolo dannoso per famiglie e imprese, e accusando il governo di incompetenza e di favorire l’evasione fiscale con scelte inadeguate. Luigi Marattin di Italia Viva ha espresso la sua contrarietà, evidenziando come la stretta sul Superbonus danneggi cittadini, imprese e banche per un beneficio finanziario minimo. Ha inoltre criticato la gestione del governo riguardo alle previsioni di spesa del Superbonus per il 2023, definendole erronee di 40 miliardi di euro. Tommaso Foti di Fratelli d’Italia ha dichiarato che con l’approvazione del decreto si chiude la stagione dei bonus edilizi, che secondo lui hanno danneggiato i conti dello Stato togliendo risorse a settori cruciali come scuola, sanità e pensioni. Foti ha sostenuto che la misura consentirà di dare respiro alla finanza pubblica, arginando frodi e speculazioni. Laura Cavandoli della Lega ha affermato che il decreto ha messo fine a una misura fuori controllo e che ha costato molto in termini di deficit. Ha sottolineato che il bonus ha riguardato solo il 4% del patrimonio edilizio e generato appena l’1% del Pil, criticando la sua promozione da parte del Movimento 5 Stelle. Cavandoli ha inoltre espresso la sua opposizione alla direttiva europea sulle case green, considerandola insostenibile sia economicamente che ambientalmente.
Altre notizie:
LAVORO
ANSA – INAIL: NEL 2023 CI SONO STATI 1.147 INCIDENTI MORTALI SUL LAVORO (-9,5%)
Nel 2023, l’INAIL ha registrato oltre 590.000 infortuni sul lavoro, con una diminuzione del 16,1% rispetto ai circa 704.000 del 2022. Di questi, 1.147 hanno avuto esito mortale, segnando una riduzione del 9,5% rispetto ai 1.268 decessi dell’anno precedente. Questi dati sono stati riportati nella relazione annuale dell’Istituto. Degli infortuni denunciati, 375.578 sono stati riconosciuti come incidenti sul lavoro, pari al 64% delle denunce totali. Di questi, il 18,1% è avvenuto “fuori dall’azienda”, ovvero durante il tragitto casa-lavoro o a causa di incidenti con mezzi di trasporto. Attualmente, sono stati accertati 550 decessi sul lavoro, il 48% delle denunce, di cui oltre la metà (52,2%) si è verificata “fuori dall’azienda”. Inoltre, le denunce di malattie professionali sono aumentate a oltre 72.000, con un incremento del 19,8% rispetto al 2022. Il calo degli infortuni nel 2023 è stato influenzato dalla pandemia, che nel 2022 aveva portato a un numero elevato di contagi professionali denunciati. La riduzione reale degli infortuni, al netto dell’effetto Covid, si attesta a -0,6%. Rispetto al 2019, anno pre-pandemia, la diminuzione è di circa il 9%. Per quanto riguarda i casi mortali, l’emergenza sanitaria non ha avuto un impatto significativo come nel biennio 2020-2021. Tra i settori con il maggior numero di decessi si trovano le Costruzioni (176 casi), il Trasporto e magazzinaggio (125 decessi) e il comparto manifatturiero (111 decessi). Oltre un terzo degli infortuni e un decesso su dodici riguardano lavoratrici donne. La fascia di età più colpita per le denunce di infortunio è quella tra i 40 e i 64 anni, mentre per i decessi la fascia predominante è quella tra i 50 e i 64 anni. Quasi otto infortuni su dieci riguardano lavoratori italiani (in calo del 18,9%), mentre il 17% degli infortuni coinvolge extracomunitari (-0,2%) e il 4% comunitari (-13,7%). Anche per quanto riguarda i decessi, circa l’80% riguarda lavoratori italiani (-9,1%), il 15% extracomunitari (-8,2%) e il 4% comunitari (-20,3%). La diminuzione del numero di morti sul lavoro nel 2023 rispetto al 2022 è stata del 9,5%, con cali registrati al Centro (-18,7%), Nord-Ovest (-13,6%), Nord-Est (-11,3%) e Isole (-9,3%). Al contrario, si è registrato un aumento al Sud (+6,3%). Nel corso del 2023, grazie ai controlli effettuati dagli ispettori INAIL, sono stati regolarizzati oltre 44.000 lavoratori. Di questi, 1.708 erano in nero. Sono stati accertati premi per oltre 91 milioni di euro. Gli ispettori hanno avviato controlli su oltre 8.700 aziende. Le aziende irregolari ispezionate sono state circa l’93% delle aziende controllate. Nonostante ciò, l’INAIL ha segnalato una significativa carenza di personale nella funzione di vigilanza: alla fine del 2023 la forza ispettiva era composta da sole 200 unità.
Altre notizie:
TASSE
ILPOST – L’EVASIONE IN ITALIA CONTINUA A DIMINUIRE
Gli ultimi dati disponibili sul fenomeno dell’evasione fiscale in Italia, relativi al 2021, mostrano una tendenza positiva: l’evasione è in costante calo, e uno degli obiettivi fissati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è stato raggiunto con anticipo, anche se permangono alcune criticità. Il rapporto ufficiale del ministero dell’Economia sull’economia non osservata, pubblicato a ottobre, offre un quadro completo della situazione e di quanto denaro lo Stato italiano continua a perdere ogni anno a causa dell’evasione fiscale. L’evasione fiscale si misura con il cosiddetto tax gap, ovvero la differenza tra l’importo stimato che i contribuenti dovrebbero versare al fisco e quanto effettivamente viene pagato. I dati relativi al 2021 indicano che il tax gap è sceso da 85 a 82 miliardi di euro rispetto al 2020. Nel 2019, l’importo evaso superava ancora i 100 miliardi di euro. La propensione all’evasione, cioè la percentuale di tasse evase rispetto al totale dovuto, è diminuita dal 17% al 15%. Quando fu approvato il PNRR, uno degli obiettivi ambiziosi riguardava proprio la riduzione dell’evasione fiscale: il target era di raggiungere il 15% di propensione all’evasione entro il 2024. Secondo i dati attuali, questo traguardo è stato già raggiunto con anni di anticipo, a meno di una sorprendente inversione di tendenza nei prossimi anni. Dei 82 miliardi di euro di tasse evase nel 2021, circa 72 miliardi sono relativi al mancato pagamento di imposte come IRPEF, IVA e IRES. I restanti 10 miliardi riguardano i contributi non versati, necessari a finanziare pensioni e prestazioni assistenziali come malattia e congedo parentale. Complessivamente, rispetto al 2020, l’evasione è diminuita del 3,8%, confermando una tendenza al ribasso che prosegue ormai da anni. Dal 2014, infatti, il gettito mancante è sceso di quasi 27 miliardi di euro, e nello stesso periodo la propensione all’evasione è calata di 7,6 punti percentuali. Il maggior contributo al calo tra il 2020 e il 2021 è stato registrato per l’IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) e per le imposte sugli affitti. Questo miglioramento è il risultato di diverse misure introdotte negli ultimi anni per combattere l’evasione fiscale, come la fatturazione elettronica obbligatoria e il meccanismo dello split payment, che fa pagare direttamente l’IVA allo Stato quando gli acquisti riguardano la pubblica amministrazione. Tuttavia, questi dati non tengono ancora conto dell’obbligo di accettare pagamenti elettronici, introdotto solo nel 2022, che potrebbe ulteriormente migliorare la situazione. Nonostante i progressi fatti, si prevede che la riduzione del tax gap diventerà sempre più graduale. Più si riduce l’evasione, più diventa difficile ridurla ulteriormente, poiché sarà necessario l’uso di strumenti sempre più sofisticati per individuare i casi di evasione residui, con risultati che probabilmente saranno meno significativi in termini assoluti. Anche nel 2021, l’imposta più evasa è stata l’IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) dei lavoratori autonomi, con oltre 29 miliardi di euro non versati. Il tax gap per gli autonomi è stato del 66,8%, il che significa che allo Stato manca circa due terzi delle imposte dovute da questa categoria. Al contrario, per i lavoratori dipendenti, l’evasione dell’IRPEF è stata molto più bassa, pari a circa 4 miliardi di euro (2,3% del gettito previsto), e riguarda principalmente i casi di lavoro irregolare. Per i dipendenti regolarmente assunti è praticamente impossibile evadere, poiché le imposte vengono trattenute direttamente dal datore di lavoro. Dopo l’IRPEF, la seconda imposta più evasa è l’IVA, con circa 17,8 miliardi di euro mancanti, pari al 13,8% del totale dovuto. Tuttavia, rispetto al 2020, l’evasione dell’IVA è diminuita significativamente, con una riduzione di oltre 4 miliardi di euro, corrispondente a un calo di quasi un quinto in un solo anno. Anche il tax gap dell’IVA è sceso di 5 punti percentuali. Nonostante i miglioramenti, l’Italia resta il primo Paese europeo per perdita di gettito IVA in valore assoluto, essendo responsabile di un quarto di tutta l’IVA evasa nell’Unione Europea. Tuttavia, in termini percentuali, l’Italia è quinta per il tax gap relativo all’IVA. L’alta evasione dell’IRPEF e dell’IVA è spesso attribuita alla cosiddetta evasione “con consenso”, ossia l’accordo tra fornitore e cliente per non pagare le imposte. In questi casi, l’azienda o il professionista non emette fattura o scontrino, evitando di versare l’IRPEF, mentre il cliente ottiene uno sconto corrispondente all’IVA che non avrebbe altrimenti pagato. Questo tipo di evasione è particolarmente difficile da tracciare per le autorità fiscali, specialmente quando si tratta di piccole attività o liberi professionisti. Al contrario, le grandi aziende, come le multinazionali e le catene di distribuzione, sono meno propense a evadere in questo modo, anche perché soggette a maggiori controlli. Tra le imposte con la più alta propensione all’evasione ci sono quelle sugli immobili, come l’IMU (Imposta Municipale Unica) e la TARI (tassa sui rifiuti). Entrambe sono imposte locali pagate ai comuni, che ogni anno non riescono a riscuotere circa il 21,4% di quanto dovuto, per un ammanco complessivo di oltre 5 miliardi di euro. È sorprendente considerare che, nonostante sia difficile nascondere il possesso di una casa rispetto a redditi percepiti in contanti, l’evasione delle imposte sugli immobili ha una propensione così alta. Proprio in questi giorni, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha sottolineato la necessità di intensificare i controlli per la riscossione delle imposte, in particolare quelle relative alle cosiddette “case fantasma”, ossia immobili non registrati correttamente al catasto o con caratteristiche non aggiornate. Ha anche parlato della necessità di aggiornare i valori catastali.
Altre notizie:
SOLDI
ANSA – ISTAT: CRESCE L’ECONOMIA ILLEGALE E SOMMERSA
L’economia illegale e sommersa in Italia continua a crescere, secondo un report dell’Istat. Nel 2022, il valore dell’economia illegale ha raggiunto i 19,8 miliardi di euro, con un incremento di 1,2 miliardi rispetto all’anno precedente. Questo valore ha superato i livelli pre-pandemia. Allo stesso tempo, l’economia sommersa ha raggiunto i 181,8 miliardi di euro, con un aumento di 16,3 miliardi rispetto al 2021. Il report dell’Istat analizza l’andamento dell'”economia non osservata nei conti nazionali”, che comprende sia l’economia sommersa che le attività illegali. Nel complesso, nel 2022, l’economia non osservata è aumentata del 9,6%, arrivando a un valore totale di 201,6 miliardi di euro. Questo incremento è in linea con la crescita del PIL. La crescita dell’economia illegale è stata principalmente influenzata dal traffico di stupefacenti. Il valore aggiunto generato da questa attività ha raggiunto i 15,1 miliardi di euro nel 2022, con un aumento di un miliardo rispetto al 2021. Anche la spesa per consumi finali legati alle droghe è aumentata, passando a 17,2 miliardi di euro. Inoltre, si è registrato un incremento nei servizi di prostituzione, con un valore aggiunto salito a 4 miliardi e consumi finali aumentati a 4,7 miliardi. Il contrabbando di sigarette rimane una componente marginale dell’economia illegale, con un valore aggiunto di soli 700mila euro e consumi di circa 800mila euro. L’indotto delle attività illegali è principalmente legato ai settori dei trasporti e del magazzinaggio, dove il valore aggiunto è aumentato da 1,4 miliardi nel 2021 a 1,6 miliardi nel 2022. L’economia sommersa ha visto un aumento significativo tra i professionisti e una riduzione nelle costruzioni. È particolarmente diffusa nei settori degli ‘altri servizi alle persone’ (30,5% del valore aggiunto), del ‘commercio, trasporti, alloggio e ristorazione’ (18,5%) e delle costruzioni (17,5%). La sotto-dichiarazione ammonta a 100,9 miliardi mentre il lavoro irregolare corrisponde a 69,2 miliardi. Nel 2022 il numero delle unità di lavoro irregolari è rimasto stabile a circa 2 milioni e 986mila. L’incidenza del lavoro irregolare è più alta nel settore terziario (14,6%) e raggiunge picchi significativi negli ‘altri servizi alle persone’ (39,3%), in agricoltura (17,4%), nelle costruzioni (12,4%) e nel commercio e trasporti (14,5%).
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POVERTA’
ANSA – ISTAT: 5,7 MILIONI DI PERSONE IN POVERTA’ ASSOLUTA
Nel 2023, l’Istat ha pubblicato dati allarmanti riguardanti la povertà in Italia, rivelando che 5,7 milioni di persone vivono in condizioni di povertà assoluta. Questo rappresenta un significativo aumento rispetto agli anni precedenti, con un’incidenza che colpisce oltre una persona su dieci, pari al 10,6% della popolazione. Tra i più colpiti ci sono i minori: 1,29 milioni di bambini e ragazzi si trovano in condizioni di indigenza, un dato che segna un triste primato. La situazione è particolarmente grave per le famiglie operaie, la cui percentuale di povertà assoluta ha raggiunto un livello record del 16,5% nel 2023, in aumento rispetto al 14,7% del 2022. Anche le famiglie operaie in povertà relativa sono aumentate, passando dal 16,8% nel 2022 al 18,6% nel 2023. Questi dati non sorprendono considerando il contesto economico: la produzione industriale italiana ha registrato ad agosto il suo diciannovesimo mese consecutivo di calo e continuano a giungere notizie di tagli e chiusure. Inoltre, il rapporto evidenzia un incremento della povertà anche tra categorie sociali precedentemente considerate privilegiate. Le famiglie di “dirigenti, quadri e impiegati dipendenti” in povertà assoluta sono passate dal 2,6% nel 2022 al 2,8% nel 2023. Anche le famiglie di “imprenditori e liberi professionisti” hanno visto un aumento della povertà assoluta dall’1% all’1,7%. Al contrario, il tenore di vita delle famiglie di lavoratori autonomi è migliorato: la percentuale di quelle in povertà assoluta è scesa dall’8,5% del 2022 al 6,8% del 2023. Un aspetto preoccupante è l’aumento della povertà nelle regioni del Nord Italia. Sebbene il Mezzogiorno continui a registrare l’incidenza più alta di famiglie in povertà assoluta—con oltre 859mila famiglie, più del doppio rispetto alle 413mila famiglie nel Nord-Est—anche al Nord e al Centro si osserva una crescita: dal 42,9% al 45,0% nel Nord e dal 15,6% al 16,2% nel Centro. Nel Mezzogiorno, invece, la percentuale è diminuita dal 41,4% al 38,7%. L’Istat ha anche segnalato un “aumento dell’intensità” della povertà in tutto il Nord (19,4% nel Nord-est e 19,9% nel Nord-ovest) e al Centro (20,2%), mentre nel Mezzogiorno si registra una riduzione dell’intensità che porta i valori a 20,9%. Per quanto riguarda le soglie di povertà relativa, viene considerata in tale condizione una famiglia di due persone con spese per consumi pari o inferiori a 1.210,89 euro al mese; per una famiglia di quattro persone la soglia sale a 1.973,75 euro. Infine, viene definita in “povertà assoluta” una persona single tra i 30 e i 59 anni che vive nell’area metropolitana della Lombardia con spese mensili pari a 1.217,10 euro, mentre se risiede in Sicilia la soglia scende a 756,16 euro.
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