L’Italia si conferma al terzo posto tra i 38 Paesi membri dell’Ocse per livello di pressione fiscale, con un rapporto tra tasse e Pil pari al 42,8% nel 2023, stabile rispetto al 2022
L’Italia si conferma al terzo posto tra i 38 Paesi membri dell’Ocse per livello di pressione fiscale, con un rapporto tra tasse e Pil pari al 42,8% nel 2023, stabile rispetto al 2022. Questo dato è di gran lunga superiore alla media Ocse, che si attesta al 33,9%.
Al primo posto della classifica c’è la Francia, con una pressione fiscale al 43,8%, seguita dalla Danimarca, dove il rapporto tra entrate fiscali e Pil è del 43,4%. All’estremo opposto, il Messico registra il livello di pressione fiscale più basso tra i Paesi Ocse, pari al 17,7%.
Secondo il rapporto “Revenue Statistics 2024” pubblicato dall’Ocse, il livello medio di pressione fiscale tra i Paesi membri è rimasto sostanzialmente invariato nel 2023 rispetto agli anni precedenti. Tuttavia, è leggermente più alto rispetto al periodo pre-pandemia, quando nel 2019 era al 33,4%.
Nel 2023, il rapporto tra entrate fiscali e Pil è aumentato in 18 Paesi dell’Ocse, è diminuito in 17, ed è rimasto invariato in uno: l’Italia. Tra gli incrementi più significativi: Lussemburgo, con un aumento di 2,7 punti percentuali, dal 38,3% al 40,9%. Colombia, dove la pressione fiscale è salita di 2,6 punti, dal 19,7% al 22,2%.
dall’altro lato, i cali più marcati si sono registrati in: Cile, dove la pressione fiscale è scesa di 3,2 punti, passando dal 23,8% al 20,6%. Israele e Corea, con riduzioni superiori ai 3 punti percentuali.
Nonostante i tentativi dei vari governi italiani di alleggerire il carico fiscale, le tasse continuano a rappresentare un peso importante per i cittadini. Il comandante generale della Guardia di Finanza, Andrea De Gennaro, durante un’audizione alla Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria, ha evidenziato un problema rilevante legato all’evasione fiscale.
Secondo De Gennaro: “Dal 2018, l’imposta più evasa non è più l’Iva, ma l’Irpef. Nel 2021, l’evasione dell’Irpef ha raggiunto oltre 33 miliardi di euro, pari al 46% del tax gap tributario complessivo”.
Inoltre, l’economia sommersa continua a generare un valore significativo: nel 2021 si è stimato che abbia prodotto 173,8 miliardi di euro, pari al 9,5% del Pil italiano.
Il peso fiscale è anche al centro delle proteste sindacali. Le organizzazioni sindacali Uil e Cgil hanno indetto uno sciopero generale per il 29 novembre.
Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, ha dichiarato: “L’Irpef la pagano al 90% lavoratori dipendenti e pensionati. Invece di aumentare i servizi, questo governo con il concordato preventivo non fa che legalizzare l’evasione”.
LE ALTRE NOTIZIE IN EVIDENZA SU “ECONOMIA”:
DEBITO PUBBLICO
MONEY – IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO E’ AL 29% IN MANI STRANIERE
Il debito pubblico italiano continua a crescere e al primo semestre del 2024 ha raggiunto oltre 2.947 miliardi di euro, un aumento di circa 100 miliardi rispetto all’anno precedente. L’Italia ha attualmente il secondo debito pubblico più elevato in Europa, rapportato al PIL, con un rapporto del 134,6% nel 2023, secondo una recente revisione dei dati forniti dall’Istat. Uno dei temi più rilevanti in questo contesto riguarda il rischio di una procedura di infrazione per eccessivo debito pubblico, poiché l’Italia non è riuscita a ridurre significativamente il proprio debito. Questo è diventato un argomento centrale nei dibattiti politici ed economici, soprattutto in vista della presentazione del prossimo Piano strutturale di bilancio. In merito, il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, ha dichiarato che l’obiettivo del governo è «non contribuire ad alimentare il debito pubblico per le nuove generazioni». Ma chi detiene oggi questo debito? Secondo i dati Eurostat del 2018, recentemente resi noti, solo il 29,4% del debito pubblico italiano è posseduto da investitori esteri, tra cui fondi e banche straniere. Rispetto agli altri Paesi europei, questa percentuale è relativamente bassa. Ad esempio, in Lituania, Lettonia e Austria, più dei due terzi del debito pubblico è detenuto da investitori esteri. Nei Paesi più grandi, come Spagna, Francia, Germania e Polonia, la quota detenuta all’estero varia tra il 45% e il 50%. I dati mostrano che è più probabile che il debito pubblico sia in mani straniere quando riguarda Paesi più piccoli o con economie considerate più affidabili, cosa che non si può dire per l’Italia, il cui debito è in gran parte detenuto a livello nazionale. Una porzione significativa del debito pubblico italiano, il 65,1%, è detenuta da banche e fondi italiani. In confronto, in altri Paesi europei questa percentuale è generalmente inferiore al 50%, e in alcuni, come Irlanda, Lettonia e Lituania, è sotto il 30%. Solo in Danimarca e Svezia le percentuali superano quelle italiane. Per quanto riguarda i cittadini italiani, solo una piccola parte del debito pubblico è direttamente nelle loro mani: circa il 5,6%. In altri Paesi, come Irlanda, Portogallo, Svezia e Ungheria, questa percentuale è più alta. In Ungheria, ad esempio, i cittadini detengono il 21,7% del debito pubblico. Nonostante possa sembrare un dato positivo che solo il 29% del debito pubblico italiano sia in mani straniere, in realtà ciò rappresenta una cifra significativa, corrispondente a circa 700 miliardi di euro, più del debito complessivo di alcuni piccoli Paesi europei. Inoltre, la grande quantità di Buoni del Tesoro Poliennali (BTP) detenuti dalle banche italiane le rende più vulnerabili in caso di una crisi sistemica. Un altro fattore di debolezza è che il 12,8% del debito pubblico italiano è composto da titoli con una scadenza inferiore a un anno. Questo significa che una parte considerevole del debito richiede rifinanziamenti frequenti, una situazione che potrebbe creare ulteriori difficoltà economiche se non gestita correttamente.
Altre notizie:
MONDO
SCENARIECONOMICI – L’INDIA STA PER SUPERARE IL GIAPPONE E RAGGIUNGERE IL QUARTO POSTO PER PRODOTTO INTERNO LORDO (DOPO USA, CINA E GERMANIA)
Secondo una recente stima del Fondo Monetario Internazionale (FMI), l’India è in procinto di sorpassare il Giappone per quanto riguarda il Prodotto Interno Lordo (PIL), aprendo le porte a una nuova epoca economica in Asia. Questo spostamento di posizione collocherebbe l’India al quarto posto mondiale per PIL, dietro solo agli Stati Uniti, alla Cina e alla Germania. Tuttavia, anche Berlino dovrà fare i conti con le conseguenze di questo cambiamento. Secondo le proiezioni del FMI, il PIL nominale dell’India dovrebbe raggiungere circa 4,3398 trilioni di dollari nel 2025, superando così il PIL giapponese stimato a 4,3103 trilioni di dollari nello stesso anno. Tale superamento avverrebbe con un anno di anticipo rispetto alle previsioni precedenti del FMI, che indicavano il 2026 come il momento del sorpasso. L’attuale deprezzamento dello yen giapponese sembra essere uno dei fattori che accelerano questo cambiamento, riducendo l’economia del Giappone in termini di dollari. Questo deprezzamento ha contribuito a eclissare il PIL giapponese rispetto a quello della Germania nel 2023, collocando il Giappone al quinto posto tra le economie mondiali. La rupia indiana, dal canto suo, è rimasta sostanzialmente stabile rispetto al dollaro sin dall’inizio del 2023, mantenendo un tasso di cambio di circa 83 rupie per dollaro. Tuttavia, ci sono segnali che suggeriscono un intervento significativo della Reserve Bank of India nel mercato valutario, come osservato nel rapporto del FMI del dicembre 2023. La banca centrale indiana ha respinto le critiche del FMI riguardo a un possibile intervento eccessivo nel mercato valutario, sostenendo che le analisi si basavano su tendenze a breve termine e non riflettevano pienamente la situazione economica complessiva. L’ascesa economica dell’India è stata notevole negli ultimi anni, nonostante le sfide della pandemia COVID-19. Il Paese ha visto una crescita significativa, trainata in parte dall’espansione della sua popolazione. Le previsioni della Reserve Bank of India indicano una crescita reale del PIL del 7% nell’anno fiscale 2024. Nonostante questi successi, il PIL nominale pro capite dell’India si attesta ancora a circa 2.000 dollari, una frazione rispetto alla Cina e vicino al Bangladesh. Tuttavia, la classe media indiana è in espansione, e si prevede che l’India supererà la Germania per diventare la terza economia mondiale entro il 2027.
Altre notizie:
MERCATO TUTELATO E LIBERO
LEGGO – CRC: CHI PASSA AL MERCATO LIBERO SI RITROVERA’ A PAGARE 1.776 EURO ANNUI IN PIU’
Secondo quanto riportato dal Centro di formazione e ricerca sui consumi (Crc), chi attiverà oggi un servizio di fornitura sul mercato libero dell’energia elettrica potrebbe vedersi infliggere un aumento fino a 1.776 euro all’anno rispetto alla bolletta media del Servizio a Tutele Graduali, che entrerà in vigore il 1 luglio. Il confronto delle offerte dei 7 gestori vincitori delle aste dell’Acquirente Unico per il Servizio a Tutele Graduali, rappresentanti il 70,49% del mercato, ha rivelato che le tariffe del mercato libero sono significativamente più elevate. I clienti che non scelgono un operatore del mercato libero passeranno automaticamente dal Maggiore Tutela al Servizio a Tutele Graduali, godendo di un risparmio stimato di circa 131 euro all’anno a utenza rispetto alle attuali tariffe del mercato tutelato. Tuttavia, per coloro che optano per il mercato libero, le differenze di prezzo sono evidenti. Chi sceglie un’offerta a prezzo variabile può aspettarsi un aumento annuo che va da un minimo di 162 euro a un massimo di 573 euro rispetto alle tutele graduali. Nel caso di un contratto a prezzo fisso, le tariffe sono ancora più alte, con un aumento annuo che varia da un minimo di 204 euro a un massimo di 1.776 euro rispetto alla bolletta media del Servizio a Tutele Graduali. Secondo il presidente del comitato scientifico del Crc e presidente onorario di Assoutenti, Furio Truzzi, questa situazione rappresenta un “doppio assurdo paradosso”, con i clienti del mercato libero che pagheranno tariffe più elevate rispetto alle tutele graduali, anche scegliendo lo stesso gestore. Inoltre, gli utenti vulnerabili che rimangono nel mercato tutelato subiranno un aumento medio di 131 euro all’anno rispetto al Servizio a Tutele Graduali. Truzzi ha anche sottolineato che coloro che sono passati al mercato libero e desiderano beneficiare delle tutele graduali a partire dal 1 luglio dovranno rientrare nella Maggior Tutela entro il 30 giugno, poiché non è previsto un passaggio diretto dal libero al Servizio a Tutele Graduali.
Altre notizie:
SUPERBONUS
SKYTG24 – APPROVATO IN VIA DEFINITIVA IL DECRETO SUL SUPERBONUS: NIENTE SGRAVIO E RATE IN 10 ANNI
La Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva il decreto legge sul Superbonus, trasformandolo in legge. Con 150 voti favorevoli e 109 contrari, il governo ha ottenuto la fiducia necessaria per procedere con le modifiche. Il Superbonus, come voluto dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, è stato modificato principalmente per quanto riguarda la dilazione delle rate, che ora saranno spalmate su dieci anni invece di quattro, per tutte le spese sostenute a partire da gennaio 2024. Questa modifica, con effetto retroattivo, è stata oggetto di accese discussioni. Inoltre, a partire da gennaio 2025, sarà vietata la compensazione per banche e assicurazioni dei crediti da bonus edilizi con i contributi Inps e Inail. Virginio Merola del Partito Democratico ha criticato duramente il decreto, definendolo dannoso per famiglie e imprese, e accusando il governo di incompetenza e di favorire l’evasione fiscale con scelte inadeguate. Luigi Marattin di Italia Viva ha espresso la sua contrarietà, evidenziando come la stretta sul Superbonus danneggi cittadini, imprese e banche per un beneficio finanziario minimo. Ha inoltre criticato la gestione del governo riguardo alle previsioni di spesa del Superbonus per il 2023, definendole erronee di 40 miliardi di euro. Tommaso Foti di Fratelli d’Italia ha dichiarato che con l’approvazione del decreto si chiude la stagione dei bonus edilizi, che secondo lui hanno danneggiato i conti dello Stato togliendo risorse a settori cruciali come scuola, sanità e pensioni. Foti ha sostenuto che la misura consentirà di dare respiro alla finanza pubblica, arginando frodi e speculazioni. Laura Cavandoli della Lega ha affermato che il decreto ha messo fine a una misura fuori controllo e che ha costato molto in termini di deficit. Ha sottolineato che il bonus ha riguardato solo il 4% del patrimonio edilizio e generato appena l’1% del Pil, criticando la sua promozione da parte del Movimento 5 Stelle. Cavandoli ha inoltre espresso la sua opposizione alla direttiva europea sulle case green, considerandola insostenibile sia economicamente che ambientalmente.
Altre notizie:
LAVORO
AGI – IN ITALIA CHIUSI 140 MILA NEGOZI IN 10 ANNI
In dieci anni, dal 2014 al 2024, in Italia sono scomparse oltre 140.000 imprese del commercio al dettaglio in sede fissa, tra cui quasi 46.500 attività di vicinato come negozi alimentari, edicole, bar e distributori di carburante. Il dato è stato diffuso dalla Confesercenti durante l’assemblea nazionale dell’associazione, tenutasi al Teatro Eliseo di Roma. La presidente di Confesercenti, Patrizia De Luise, ha messo in evidenza come il fenomeno della desertificazione commerciale colpisca soprattutto i piccoli centri, le aree interne e rurali, ma anche molte zone urbane. “Il rilancio delle imprese del territorio è un altro dei fronti su cui concentrare l’azione di governo”, ha dichiarato. De Luise ha spiegato che la chiusura di così tanti esercizi commerciali non è solo un problema economico, ma ha anche un forte impatto sociale: “Questa perdita di punti di accesso ai servizi essenziali riduce la qualità della vita della popolazione e contribuisce a rafforzare la tendenza al declino demografico di vaste aree territoriali”. Secondo la presidente, per contrastare questo fenomeno sono necessari investimenti e politiche mirate: “Dobbiamo avviare iniziative per la resilienza della rete di imprese di vicinato. Per chi apre nelle aree desertificate, un regime agevolato accompagnato da semplificazioni burocratiche è da ritenersi prioritario”. Un altro punto critico riguarda le distorsioni alla concorrenza tra i piccoli negozi e i giganti del commercio online. Patrizia De Luise ha sottolineato come eventi come il Black Friday stiano penalizzando gravemente il commercio tradizionale: “Ci sono enormi distorsioni nella concorrenza tra giganti del web e imprese di vicinato”. Ha poi spiegato il meccanismo dietro questa giornata di sconti: “Il Black Friday è diventato sinonimo di vendite promozionali e sconti. Una tradizione nordamericana, importata dai giganti del commercio online per assaltare la diligenza del mercato natalizio. L’obiettivo delle piattaforme web è quello di anticipare gli acquisti dei regali di Natale, facendoli concentrare in un periodo utile per garantire le consegne, sottraendo, chiaramente, quote di mercato a negozi e retail offline”. Confesercenti, in collaborazione con IPSOS, ha condotto un sondaggio per misurare l’interesse degli italiani verso il Black Friday: L’86% degli intervistati ha dichiarato di voler valutare le offerte. Il 44% ha già deciso cosa acquistare. Secondo De Luise, il Black Friday si sta trasformando in uno degli eventi promozionali più rilevanti dell’anno, superando in molti casi le tradizionali vendite di fine stagione: “Si sta configurando come uno degli eventi promozionali commerciali più importanti dell’anno, dal valore paragonabile – se non superiore – a quello delle vendite di fine stagione. Quasi un terzo tempo di queste, dei veri e propri saldi autunnali, non limitati all’abbigliamento, che però rischiano di prosciugare il Natale dei negozi”. Le previsioni indicano che oltre il 70% degli acquirenti userà il Black Friday per comprare regali di Natale, con uno su quattro intenzionato a comprare oltre metà dei doni programmati. Complessivamente, si stima che più di un terzo dei regali natalizi sarà acquistato durante il Black Friday, con una netta prevalenza degli acquisti effettuati online: 6 acquisti su 10 avverranno tramite piattaforme web. Il resto sarà concentrato presso grandi catene e negozi monobrand. Alla luce di questi dati, Confesercenti chiede misure concrete per ridurre le disuguaglianze nella competizione tra il commercio tradizionale e le piattaforme online, sottolineando l’urgenza di supportare le imprese di vicinato attraverso agevolazioni e politiche mirate a sostenerne la sopravvivenza e la crescita.
Altre notizie:
TASSE
ILPOST – L’EVASIONE IN ITALIA CONTINUA A DIMINUIRE
Gli ultimi dati disponibili sul fenomeno dell’evasione fiscale in Italia, relativi al 2021, mostrano una tendenza positiva: l’evasione è in costante calo, e uno degli obiettivi fissati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è stato raggiunto con anticipo, anche se permangono alcune criticità. Il rapporto ufficiale del ministero dell’Economia sull’economia non osservata, pubblicato a ottobre, offre un quadro completo della situazione e di quanto denaro lo Stato italiano continua a perdere ogni anno a causa dell’evasione fiscale. L’evasione fiscale si misura con il cosiddetto tax gap, ovvero la differenza tra l’importo stimato che i contribuenti dovrebbero versare al fisco e quanto effettivamente viene pagato. I dati relativi al 2021 indicano che il tax gap è sceso da 85 a 82 miliardi di euro rispetto al 2020. Nel 2019, l’importo evaso superava ancora i 100 miliardi di euro. La propensione all’evasione, cioè la percentuale di tasse evase rispetto al totale dovuto, è diminuita dal 17% al 15%. Quando fu approvato il PNRR, uno degli obiettivi ambiziosi riguardava proprio la riduzione dell’evasione fiscale: il target era di raggiungere il 15% di propensione all’evasione entro il 2024. Secondo i dati attuali, questo traguardo è stato già raggiunto con anni di anticipo, a meno di una sorprendente inversione di tendenza nei prossimi anni. Dei 82 miliardi di euro di tasse evase nel 2021, circa 72 miliardi sono relativi al mancato pagamento di imposte come IRPEF, IVA e IRES. I restanti 10 miliardi riguardano i contributi non versati, necessari a finanziare pensioni e prestazioni assistenziali come malattia e congedo parentale. Complessivamente, rispetto al 2020, l’evasione è diminuita del 3,8%, confermando una tendenza al ribasso che prosegue ormai da anni. Dal 2014, infatti, il gettito mancante è sceso di quasi 27 miliardi di euro, e nello stesso periodo la propensione all’evasione è calata di 7,6 punti percentuali. Il maggior contributo al calo tra il 2020 e il 2021 è stato registrato per l’IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) e per le imposte sugli affitti. Questo miglioramento è il risultato di diverse misure introdotte negli ultimi anni per combattere l’evasione fiscale, come la fatturazione elettronica obbligatoria e il meccanismo dello split payment, che fa pagare direttamente l’IVA allo Stato quando gli acquisti riguardano la pubblica amministrazione. Tuttavia, questi dati non tengono ancora conto dell’obbligo di accettare pagamenti elettronici, introdotto solo nel 2022, che potrebbe ulteriormente migliorare la situazione. Nonostante i progressi fatti, si prevede che la riduzione del tax gap diventerà sempre più graduale. Più si riduce l’evasione, più diventa difficile ridurla ulteriormente, poiché sarà necessario l’uso di strumenti sempre più sofisticati per individuare i casi di evasione residui, con risultati che probabilmente saranno meno significativi in termini assoluti. Anche nel 2021, l’imposta più evasa è stata l’IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) dei lavoratori autonomi, con oltre 29 miliardi di euro non versati. Il tax gap per gli autonomi è stato del 66,8%, il che significa che allo Stato manca circa due terzi delle imposte dovute da questa categoria. Al contrario, per i lavoratori dipendenti, l’evasione dell’IRPEF è stata molto più bassa, pari a circa 4 miliardi di euro (2,3% del gettito previsto), e riguarda principalmente i casi di lavoro irregolare. Per i dipendenti regolarmente assunti è praticamente impossibile evadere, poiché le imposte vengono trattenute direttamente dal datore di lavoro. Dopo l’IRPEF, la seconda imposta più evasa è l’IVA, con circa 17,8 miliardi di euro mancanti, pari al 13,8% del totale dovuto. Tuttavia, rispetto al 2020, l’evasione dell’IVA è diminuita significativamente, con una riduzione di oltre 4 miliardi di euro, corrispondente a un calo di quasi un quinto in un solo anno. Anche il tax gap dell’IVA è sceso di 5 punti percentuali. Nonostante i miglioramenti, l’Italia resta il primo Paese europeo per perdita di gettito IVA in valore assoluto, essendo responsabile di un quarto di tutta l’IVA evasa nell’Unione Europea. Tuttavia, in termini percentuali, l’Italia è quinta per il tax gap relativo all’IVA. L’alta evasione dell’IRPEF e dell’IVA è spesso attribuita alla cosiddetta evasione “con consenso”, ossia l’accordo tra fornitore e cliente per non pagare le imposte. In questi casi, l’azienda o il professionista non emette fattura o scontrino, evitando di versare l’IRPEF, mentre il cliente ottiene uno sconto corrispondente all’IVA che non avrebbe altrimenti pagato. Questo tipo di evasione è particolarmente difficile da tracciare per le autorità fiscali, specialmente quando si tratta di piccole attività o liberi professionisti. Al contrario, le grandi aziende, come le multinazionali e le catene di distribuzione, sono meno propense a evadere in questo modo, anche perché soggette a maggiori controlli. Tra le imposte con la più alta propensione all’evasione ci sono quelle sugli immobili, come l’IMU (Imposta Municipale Unica) e la TARI (tassa sui rifiuti). Entrambe sono imposte locali pagate ai comuni, che ogni anno non riescono a riscuotere circa il 21,4% di quanto dovuto, per un ammanco complessivo di oltre 5 miliardi di euro. È sorprendente considerare che, nonostante sia difficile nascondere il possesso di una casa rispetto a redditi percepiti in contanti, l’evasione delle imposte sugli immobili ha una propensione così alta. Proprio in questi giorni, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha sottolineato la necessità di intensificare i controlli per la riscossione delle imposte, in particolare quelle relative alle cosiddette “case fantasma”, ossia immobili non registrati correttamente al catasto o con caratteristiche non aggiornate. Ha anche parlato della necessità di aggiornare i valori catastali.
Altre notizie:
SOLDI
BORSAITALIANA – NEL RESTO D’EUROPA GLI STIPENDI CRESCONO MOLTO DI PIU’ RISPETTO ALL’ITALIA
Negli ultimi dieci anni, le retribuzioni medie nei Paesi membri dell’Unione Europea sono cresciute del 30%, mentre in Italia l’aumento si è fermato al 15%. Secondo i dati di Eurostat, lo stipendio medio annuo dei lavoratori dipendenti nell’UE ha raggiunto i 37.900 euro nel 2023, in crescita del 6,5% rispetto ai 35.600 euro del 2022. Tuttavia, all’interno dell’Unione, le differenze salariali tra i Paesi sono molto marcate: Lussemburgo: stipendio medio più alto con 81.100 euro annui. Danimarca: seconda posizione con 67.600 euro. Irlanda: terza con 58.700 euro. All’estremo opposto si trovano: Bulgaria: stipendio medio di 13.500 euro. Ungheria: 16.900 euro. Grecia: 17.000 euro. Nel nostro Paese, il salario medio annuo è passato dai 31.847 euro del 2022 ai 32.749 euro del 2023, posizionandosi sotto la media europea. A confronto con altre nazioni: Francia: stipendio medio di 42.662 euro. Germania: 50.998 euro. Spagna: valori simili a quelli italiani, con 32.587 euro. Nonostante questa vicinanza con la Spagna, l’Italia resta distante dai livelli di molti altri Paesi economicamente comparabili. Secondo Eurostat, l’Italia detiene il record di disparità regionali nelle retribuzioni all’interno dell’UE. Nel 2023, il coefficiente di variazione tra le diverse regioni italiane ha raggiunto il 16,3%, evidenziando una distribuzione fortemente disomogenea. A seguire, troviamo: Belgio: disparità del 8,5%. Romania: 7,7%.
Altre notizie:
POVERTA’
ANSA – QUASI 4,8 MILIONI DI PENSIONATI RICEVONO UNA PENSIONE SOTTO I 1.000 EURO AL MESE
Secondo l’Osservatorio Inps sulle prestazioni pensionistiche e i beneficiari nel 2023, quasi 4,8 milioni di pensionati in Italia ricevono una pensione inferiore a 1.000 euro al mese. Questo significa che circa tre pensionati su dieci si trovano a vivere con un reddito pensionistico al di sotto di questa soglia. Di questi, quasi 1,7 milioni percepiscono meno di 500 euro al mese, un importo significativamente inferiore alla soglia di povertà. Il rapporto dell’Inps si concentra sulle singole prestazioni pensionistiche e sul reddito complessivo derivante dalle pensioni, senza considerare eventuali altre fonti di reddito dei pensionati. Tuttavia, i dati illustrano quanto sia ampia la fascia di coloro che incontrano difficoltà a far fronte alle spese quotidiane, faticando ad arrivare a fine mese. Nonostante la presenza di molti pensionati con redditi bassi, il 38,4% dei pensionati percepisce oltre 2.000 euro al mese. Questa fascia, che rappresenta meno della metà dei pensionati, assorbe il 60% della spesa pensionistica complessiva. Complessivamente, la spesa per le pensioni nel 2023 ha superato i 347 miliardi di euro, con un incremento del 7,7% rispetto al 2022. Questo aumento è dovuto in gran parte all’adeguamento per recuperare l’inflazione. Le pensioni, dunque, continuano a rappresentare uno dei principali capitoli di spesa per lo Stato italiano. Il rapporto conferma un divario significativo tra uomini e donne nei redditi da pensione, riflettendo le disuguaglianze presenti nel mercato del lavoro. Gli uomini, grazie a carriere lavorative più lunghe e retribuzioni mediamente più alte, possono contare su pensioni più elevate. Nel 2023, l’assegno pensionistico medio annuo percepito dagli uomini è del 35% superiore rispetto a quello delle donne: gli uomini ricevono in media 24.671 euro annui, mentre le donne 18.291 euro. Si prevede che con l’aumento dell’occupazione femminile, questo divario tenderà a ridursi, così come il numero di donne che si trovano a fare affidamento solo su pensioni assistenziali o di reversibilità. Nel 2023, oltre tre milioni di donne pensionate percepiscono meno di 1.000 euro al mese, ovvero più di una su tre. Di queste, quasi un milione (959.986 pensionate) riceve meno di 500 euro al mese, che rappresenta l’11,5% del totale delle pensionate. Il governo ha previsto un intervento sulle pensioni minime, che riguarda però solo i trattamenti previdenziali, cioè quelli legati al versamento dei contributi, e non le pensioni assistenziali, come l’assegno sociale o le pensioni di invalidità non legate all’attività lavorativa. L’aumento previsto porterebbe gli assegni minimi da 614,77 euro al mese a 617,92 euro, coinvolgendo circa 1,8 milioni di pensionati. Tuttavia, questo intervento è stato definito una “beffa” dal leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, e considerato da parte dell’opposizione come una “elemosina” insufficiente a compensare la perdita del potere d’acquisto causata dall’inflazione. Per quanto riguarda i pensionati che percepiscono assegni superiori a 5.000 euro lordi al mese, circa 400.000 persone ne beneficiano. Questi assegni, che sono generalmente basati su un elevato numero di anni di contributi e retribuzioni elevate, comportano una spesa maggiore rispetto ai pensionati con i redditi più bassi. In particolare, per le pensioni più alte si spende complessivamente circa 34,4 miliardi di euro, rispetto ai 33,5 miliardi destinati ai 4,8 milioni di pensionati con redditi più bassi. In totale, le prestazioni pensionistiche erogate in Italia nel 2023 ammontano a 22.919.888. Di queste, la maggior parte (17.752.596) sono prestazioni IVS (Invalidità, Vecchiaia e Superstiti), mentre 627.143 sono prestazioni indennitarie e 4.540.149 sono pensioni assistenziali.
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