Secondo il rapporto presentato al ministero del Lavoro, l’11,8% dei lavoratori in italiani versa in condizioni di povertà
1 lavoratore su 10 vive sulla soglia della povertà. Già prima della pandemia 1/4 delle retribuzioni orarie individuali in Italia erano basse (ovvero inferiori al 60% del valore mediano) e 1 lavoratore su 10 si trovava in condizioni di povertà. Con la pandemia da coronavirus la situazione “non è migliorata“, ha detto il ministro del Lavoro Andrea Orlando.
Secondo la Relazione del Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia, presentata il 18 gennaio dal ministro del lavoro Andrea Orlando e l’economista Ocse Andrea Garnero, oltre 1 lavoratore italiano su 10 versa in condizioni di povertà, mentre almeno 1/4 degli occupati percepisce un salario basso.
Il testo inquadra l’emergenza della “in-work poverty” (la condizione di povertà che riguarda i lavoratori, spinti sotto la linea della miseria da fattori che vanno dalla stagnazione retributiva a contratti precari).
I dati sono presi dall’istituto Ue Eurostat e risalgono al 2019, l’anno precedente all’arrivo della pandemia. La pandemia, si legge nel rapporto, “ha presumibilmente esacerbato il fenomeno, esponendo a più alti rischi di disoccupazione chi aveva contratti atipici e riducendo il reddito disponibile di chi ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali e alle misure emergenziali introdotte per far fronte alle conseguenze della recessione“.
Come avviene il calcolo
La condizione di “in-work poor” scatta se un individuo si dichiara occupato per un certo numero di mesi nell’anno di riferimento (7 su 12) e vive in un nucleo familiare con un reddito equivalente disponibile inferiore alla soglia di povertà (il 60% del reddito mediano nazionale).
Utilizzando questo criterio, Eurostat ha rilevato che l’11,8% dei lavoratori italiani versava in condizioni di povertà nel 2019 (uno scarto di oltre 3 punti rispetto al 9,2% della media Ue). Inoltre, il 25% dei lavoratori percepisce una retribuzione inferiore al 60% della mediana dei redditi.
I fattori che incidono sulla povertà lavorativa
- La stagnazione delle retribuzioni;
- La composizione del nucleo famigliare (un lavoratore con retribuzioni dignitose può trovarsi in crisi se rappresenta l’unica fonte di reddito);
- L’impossibilità di lavorare a tempo pieno (contratti di part-time involontario o periodi di inattività che si intervallano fra un contratto a tempo e l’altro).
L’aumento dell’instabilità del lavoro sarebbe frutto “della debolezza della struttura economica italiana, ma anche da cambiamenti strutturali, come un aumento del peso dei servizi. Più che nella manifattura, infatti, nei servizi i lavori possono essere spezzettati in brevi fasce orarie, in alcuni casi assegnando alcune attività a società esterne per il minimo di ore possibili“.
Cosa ha fatto il governo italiano?
Le misure dispiegate sembrerebbero andare a vuoto (perché quasi sempre calibrate in soluzioni come le misure per il Sud e l’occupazione femminile).
La soluzione mirata all’aumento dei redditi, come gli “80 euro” del governo Renzi, ha troppi limiti: è basata “sul salario individuale, indipendentemente dal reddito familiare” e, in aggiunta, non è corrisposta a “chi ha un reddito talmente basso da risultare incapiente a fini fiscali. Nei fatti questa misura non è stata, dunque, molto efficace nel proteggere dal rischio della povertà lavorativa“.
Gli sgravi fiscali sui salari pagati dalle imprese come premio di produttività, vanno a vantaggio delle aziende già più “generose” nelle retribuzioni.
Il reddito di cittadinanza ha offerto qualche spiraglio in più, ma senza riuscire a incidere sulla crisi della povertà lavorativa: “Il reddito di cittadinanza ha giocato un ruolo senz’altro positivo nell’attenuare la povertà dei nuclei beneficiari, ma tale misura è essenzialmente una forma di reddito minimo, peraltro non sufficiente per portare le famiglie numerose al di sopra della soglia di povertà e limitata nell’affrontare un fenomeno complesso e sfaccettato come la povertà lavorativa“.
Le 5 proposte contro la povertà lavorativa
La crisi, secondo gli autori del rapporto, deve essere affrontata con una “molteplicità di strumenti”:
- La garanzia di un minimo salariale adeguato, da raggiungere con la sua istituzione per legge o l’estensione dei contratti collettivi;
- Il rafforzamento della vigilanza documentale, per sorvegliare il rispetto dei vincoli minimi fissati;
- L’introduzione dei in-work benefit, le prestazioni di sostegno al reddito che ancora languono rispetto alla media europea;
- L’incentivo alla imprese a pagare salari adeguati e aumento della consapevolezza fra i lavoratori;
- La revisione dello stesso indicatore della in-work poverty adottato dalla Ue, ritenuto impreciso rispetto al suo stesso obiettivo fondante.
Viene suggerito di sperimentare il salario minimo “nei settori di maggior crisi, in un numero limitato di settori“: si tratterebbe di “un intervento parziale e non esente da problemi e complessità” che permetterebbe di dare una prima risposta in quei settori in cui la situazione è più urgente lasciando il tempo al dibattito politico e sociale di maturare una conclusione.
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