Cos’è la banda della Uno bianca?

La banda della Uno bianca fu un’organizzazione criminale italiana che commise 103 crimini nell’Emilia-Romagna e nelle Marche

Banda della Uno bianca
Banda della Uno bianca. La banda della Uno bianca fu un’organizzazione criminale italiana che, tra il 1987 e il 1994, commise 103 crimini (principalmente rapine a mano armata) nell’Emilia-Romagna e nelle Marche, causando la morte di 24 persone e il ferimento di altre 114.

Il nome “La banda della uno bianca” venne dato dalla stampa nel 1991 poiché utilizzavano spesso una Fiat Uno bianca (facile da rubare e diffusa in quel periodo) durante le loro azioni.

Il 21 novembre 1994, l’assistente capo di polizia Roberto Savi fu arrestato mentre era in servizio. 3 giorni dopo, suo fratello Fabio venne catturato al confine con l’Austria mentre era in compagnia della sua giovane amante Eva Mikula. Successivamente, gli altri membri della banda: Alberto Savi, Luca Vallicelli, Pietro Gugliotta e Marino Occhipinti, vennero arrestati dalla Polizia di Stato.

Durante i processi, la Corte d’Assise di Pesaro, Bologna e Rimini condannò i membri della banda: ergastolo per Marino Occhipinti e per Alberto, Roberto e Fabio Savi; ventotto anni per Pietro Gugliotta e tre anni e otto mesi per Luca Vallicelli.

Storia

La banda, attiva tra il 1987 e l’autunno del 1994, commise 103 azioni criminali, causando la morte di 24 persone e il ferimento di altre 114.

La banda iniziò a commettere crimini nel 1987, concentrandosi su rapine notturne ai caselli autostradali lungo l’autostrada A14. Il 19 giugno 1987 la banda mise a segno il primo colpo con una rapina al casello di Pesaro, utilizzando una Fiat Regata grigia di proprietà di Alberto Savi con una targa falsa. Il bottino ammontava a circa 1,300,000 lire. Subito dopo questo primo colpo, la banda mise a segno altre 12 rapine ai caselli in circa due mesi.

Nell’ottobre 1987, organizzarono un tentativo di estorsione contro un rivenditore di automobili di Rimini, Savino Grossi. I Savi inviarono una lettera a Grossi, indicando la procedura per il pagamento. Il rivenditore fece finta di cedere al ricatto ma aveva già avvertito la polizia di Rimini. Il 3 ottobre, Grossi si recò in autostrada nascondendo un agente di polizia nel bagagliaio della sua auto, mentre altre auto della polizia lo seguivano da vicino. Questa operazione fu condotta dall’ispettore Baglioni, che nel 1994 avrebbe condotto le indagini che avrebbero permesso di identificare i membri della banda. Grossi venne contattato dagli estorsori e si fermò vicino a un cavalcavia poco prima del casello di Cesena. Con l’intervento della polizia scaturì un conflitto a fuoco durante il quale rimase gravemente ferito il sovrintendente Antonio Mosca, che sarebbe morto il 29 luglio 1989 dopo un lungo periodo di sofferenza. L’omicidio di Mosca fu il primo della serie commessa dai componenti della banda.

Il 30 gennaio 1988, durante una rapina in un supermercato, venne ucciso Giampiero Picello, una guardia giurata in servizio a Rimini. Il 20 febbraio 1988, venne ucciso anche Carlo Beccari, un’altra guardia giurata, in servizio a Casalecchio di Reno in un supermercato. Nella rapina al furgone portavalori, rimase ferito anche Francesco Cataldi, collega di Beccari. Il 20 aprile 1988, due carabinieri, Cataldo Stasi e Umberto Erriu, vennero uccisi mentre si trovavano in un parcheggio a Castel Maggiore, vicino a Bologna, dopo che avevano fermato l’auto dei Savi.

Questi sono solo alcuni esempi dei crimini commessi dalla banda durante la loro attività. La banda è stata infine scoperta e i suoi membri sono stati arrestati e processati per i loro crimini.

La strage del Pilastro

Il 4 gennaio 1991, intorno alle 22:00, nel quartiere Pilastro di Bologna, una pattuglia dell’Arma dei Carabinieri fu attaccata da un gruppo criminale. La banda si trovava in quell’area per caso, diretta verso San Lazzaro di Savena alla ricerca di un’auto da rubare.

All’altezza delle Torri, in via Casini, l’auto della banda fu sorpassata dalla pattuglia dell’Arma. I criminali interpretarono questa manovra come un tentativo di registrare i numeri di targa e decisero quindi di uccidere i carabinieri. Dopo averli affiancati, Roberto Savi sparò alcuni proiettili verso i militari, colpendo il conducente Otello Stefanini. Nonostante le gravi ferite riportate, il militare cercò di fuggire, ma finì per schiantarsi contro dei cassonetti della spazzatura.

In breve tempo l’auto dei Carabinieri fu sottoposta a una pioggia di proiettili. Gli altri due militari, Andrea Moneta e Mauro Mitilini, riuscirono a uscire dall’abitacolo e a rispondere al fuoco, ferendo tra l’altro Roberto Savi. Tuttavia, la potenza delle armi utilizzate dalla banda non lasciava speranze e entrambi i militari caddero feriti sull’asfalto. I tre furono finiti con un colpo alla nuca.

Il gruppo criminale si impossessò anche del foglio di servizio della pattuglia e si allontanò dalla scena del crimine. L’auto bianca coinvolta nel massacro fu abbandonata a San Lazzaro di Savena nel parcheggio di via Gramsci e incendiata; uno dei sedili era coperto del sangue di Roberto Savi, rimasto lievemente ferito all’addome durante lo scontro a fuoco.

La strage fu rivendicata dal gruppo terroristico “Falange Armata“, tuttavia questa rivendicazione fu considerata poco attendibile poiché arrivò dopo i comunicati dei media. La strage rimase impunita per circa 4 anni. Gli inquirenti seguirono piste errate che li portarono a incriminare persone estranee alla vicenda, come ad esempio la DIGOS di Bologna dichiarò di avere una testimone oculare, che fornì indicazioni sugli autori degli omicidi, accusando un pregiudicato, Peter Santagata, con dovizia di particolari.

Nel giugno 1992, i due fratelli Peter e William Santagata e il camorrista Marco Medda furono arrestati e accusati di aver fatto parte del commando omicida, ma furono dichiarati estranei ai fatti durante il processo poiché i veri assassini confessarono il delitto.

Azioni successive

Il 20 aprile 1991, Claudio Bonfiglioli, un benzinaio di 50 anni, venne ucciso durante una rapina a Borgo Panigale. Il 2 maggio 1991, Licia Ansaloni, proprietaria di un’armeria, e Pietro Capolungo, un ex carabiniere, vennero uccisi durante una rapina nella stessa armeria. Durante la rapina, una donna vide Roberto Savi fuori dall’armeria e fornì un ritratto parlante agli investigatori. Quando il ritratto venne mostrato al marito di Ansaloni, dichiarò che somigliava molto a Roberto Savi, un suo cliente abituale e un poliziotto di Bologna.

Il 19 giugno 1991, Graziano Mirri, benzinaio e padre di un poliziotto, venne ucciso durante una rapina al suo distributore di benzina a Cesena, davanti alla moglie. Il 18 agosto 1991, Ndiaj Malik e Babou Chejkh, due operai senegalesi, vennero uccisi in un agguato a San Mauro Mare, mentre un terzo, Madiaw Diaw, rimase ferito. L’aggressione non fu commessa per rapina né per eliminare testimoni di un reato, ma fu motivata dalle ideologie razziste dei membri della banda. Poco dopo il duplice omicidio, la banda tagliò la strada a un’auto e sparò contro i passeggeri, ma non li ha feriti.

Per tutto il 1992, non si registrarono omicidi, ma la banda si rese protagonista di quattro rapine in banca e una in un supermercato.

Il 24 febbraio 1993 la banda fu colpevole dell’omicidio di Massimiliano Valenti, un giovane di 21 anni che aveva assistito a un cambio di veicoli della banda dopo una rapina in banca. La banda rapì il giovane e lo trasportò in un’area isolata dove si svolse un’esecuzione effettiva. Il corpo di Massimiliano Valenti venne trovato in un fosso nel comune di Zola Predosa. L’autopsia effettuata sul suo volto ha rivelato fori di proiettili sparati dall’alto verso il basso.

Nel 1994 la banda aumentò la sua attività criminale contro gli istituti di credito, rapinando complessivamente nove durante l’anno. Il 24 maggio, il direttore della Cassa di Risparmio di Pesaro, Ubaldo Paci, venne ucciso mentre apriva la sua filiale. Il 7 ottobre, l’elettrauto Carlo Poli venne ucciso a Riale.

Le indagini

Nel 1994, il magistrato Daniele Paci di Rimini costituì un team di investigatori per risolvere un caso di omicidi e crimini rimasti senza colpevole, nonostante numerosi arresti negli anni precedenti che si erano rivelati errati e fuorvianti. Il team inizialmente non ebbe molto successo, riuscendo solo a ricostruire un identikit di un bandito visto durante una rapina in banca del 3 marzo 1994. Verso la metà del 1994, il team di magistrati di Rimini fu sciolto e la direzione delle indagini venne affidata a un team di magistrati a Roma.

Due poliziotti della questura di Rimini, l’ispettore Luciano Baglioni e il sovrintendente Pietro Costanza, che avevano lavorato con il team appena sciolto, chiesero alla procura di continuare le indagini e iniziarono a dedicarsi praticamente a tempo pieno alle loro indagini, mettendo in atto appostamenti, ricerche, controlli agli istituti di credito rapinati e cercando di capire le modalità operative della banda.

La polizia iniziò a indagare sulla possibilità che i componenti della banda fossero membri delle forze di polizia. La loro abilità con le armi da fuoco, l’uso di armi non comuni, la loro evasività, le loro tattiche utilizzate durante le rapine e la somiglianza con azioni militari, insieme ad alcuni comportamenti riferiti dai testimoni, li portarono a sospettare che la banda potesse avere contatti all’interno delle forze dell’ordine.

I detective Baglioni e Costanza iniziarono a indagare sulla banda criminale, esaminando ogni singolo delitto commesso. Cominciarono a sospettare che i membri della banda potessero essere persone all’interno delle forze di polizia, a causa della loro abilità con le armi da fuoco, dell’uso di armi particolari e della loro apparente inafferrabilità. Si resero conto che i criminali conoscevano troppo bene le abitudini dei dipendenti delle banche colpite, il che significava che stavano facendo un’attenta indagine prima di compiere la rapina. Così, i detective decisero di agire allo stesso modo, appostandosi davanti agli istituti di credito e osservando eventuali sospetti.

Il 3 novembre 1994, Baglioni e Costanza eseguirono un sopralluogo presso una banca a Santa Giustina nel riminese, durante il quale notarono una persona sospetta che si presentò con una vettura con una targa irriconoscibile a causa della sporcizia. Decisero quindi di seguirla e questo li condusse all’abitazione di Fabio Savi a Poggio Torriana. Da qui, le indagini si intensificarono fino ad arrivare all’accertamento delle responsabilità dei criminali, iniziando con l’arresto di Roberto Savi.

I processi e le condanne

I processi si conclusero il 6 marzo 1996, con la condanna all’ergastolo per i 3 fratelli Roberto, Fabio e Alberto Savi e per Marino Occhipinti. 28 anni di carcere furono inflitti a Pietro Gugliotta, poi ridotti a 18. Luca Vallicelli, un membro minore della banda, patteggiò una pena di 3 anni e 8 mesi.
Inoltre, lo Stato italiano fu ordinato a versare ai parenti delle 24 vittime un totale di 19 miliardi di lire.

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