Cos’è il Delitto di Cogne?

Il delitto di Cogne è un caso di infanticidio commesso il 30 gennaio 2002 ai danni di Samuele Lorenzi. Nel 2008 la Corte Suprema di Cassazione ha riconosciuto colpevole la madre, Anna Maria Franzoni

Cos'è il Delitto di Cogne?
Il delitto di Cogne è stato un infanticidio commesso il 30 gennaio 2002 a Cogne, in Valle d’Aosta, ai danni di un bambino di 3 anni di nome Samuele Lorenzi. Nel 2008, la Corte Suprema di Cassazione ha condannato la madre del bambino, Anna Maria Franzoni, ritenuta colpevole del delitto.

Le prove presentate dall’accusa dimostravano che il sangue del bambino era presente sulle ciabatte e sul pigiama indossati dalla madre la mattina del delitto, quando la madre si trovava in casa. Anna Maria Franzoni ha scontato 6 anni di carcere e 5 di detenzione domiciliare, ma è stata poi scarcerata anticipatamente per buona condotta il 7 febbraio 2019. Il caso ebbe grande rilevanza mediatica e divise l’opinione pubblica durante le prime fasi processuali.

Chi è Annamaria Franzoni

Annamaria Franzoni, nata il 23 agosto 1971 a San Benedetto Val di Sambro, è sposata con Stefano Lorenzi, perito elettrotecnico. La coppia ha avuto 3 figli: Davide (nato ad Aosta nel 1995), Samuele (nato ad Aosta il 12 novembre 1998 e deceduto a Cogne il 30 gennaio 2002) e Gioele (nato a Bologna il 26 gennaio 2003).

La Franzoni fu immediatamente ritenuta l’unica responsabile dell’omicidio e subì diverse valutazioni psicologiche e psichiatriche da parte di esperti, tra cui Ugo Fornari. In seguito, la Franzoni rifiutò di sottoporsi a una seconda perizia, anche se venne eseguita comunque sulla base di documenti già presenti.

Le ultime perizie hanno descritto la Franzoni come affetta da una personalità isterica, tendente alla teatralità e alla simulazione, e incapace di gestire in modo maturo le difficoltà quotidiane. Dopo la nascita del secondo figlio, Samuele, sembra che abbia avuto problemi a gestire la casa e due figli piccoli, ma non è stato stabilito se si trattasse di una vera e propria depressione post-partum. La Franzoni si era rivolta alla dottoressa Satragni per queste difficoltà, ma ha ottenuto solo la prescrizione di un lieve antidepressivo che non sembra aver mai utilizzato. Successivamente, la coppia Lorenzi si separò brevemente e la Franzoni, con i due figli, tornò dai suoi genitori a Monteacuto Vallese, una frazione di San Benedetto Val di Sambro.

La mattina del crimine, la Franzoni lamentò un “malessere” e il marito avvisò la guardia medica alle 5:30. Successivamente, la Franzoni minimizzò l’episodio, affermando che il sanitario le avrebbe diagnosticato una semplice influenza. Tuttavia, i sintomi da lei lamentati (tremori agli arti, difficoltà respiratorie, nausea e senso di oppressione al petto) suggeriscono che la donna potesse soffrire di attacchi di panico. La Franzoni rigettò ogni ipotesi di disturbo mentale, inclusi i sintomi che alcuni esperti hanno suggerito potessero spiegare l’amnesia riguardo all’omicidio e l’incapacità di assumersene la responsabilità.

Nella sentenza d’appello, l’imputata è stata ritenuta pienamente sana di mente al momento del delitto. Nelle motivazioni della sentenza, emesse il 19 ottobre 2007, si afferma che “la Corte non può ignorare che Anna Maria Franzoni ha sofferto di un reale disturbo clinicamente riconosciuto, che richiederebbe anche un trattamento terapeutico, ma che non costituisce in sé una infermità mentale che determina una menomazione della capacità di intendere e volere“.

Con il sostegno della sua famiglia, la Franzoni si dichiarò sempre innocente e tentò di indicare un colpevole alternativo, additando vari vicini di casa, contro i quali peraltro non aveva alcuna ostilità pregressa, come “veri assassini”. Tutti i vicini indicati dalla donna avevano però un alibi inoppugnabile.

Nel luglio 2014, Carlo Taormina, che aveva precedentemente assistito Anna Maria Franzoni durante i processi, ha dichiarato in una trasmissione radiofonica su Radio 24, La Zanzara, di non aver mai ricevuto il pagamento per i suoi servizi legali e di essere in causa con la donna per la riscossione di circa 800.000 euro. Ciò ha portato ad un processo civile in cui Franzoni e suo marito Stefano Lorenzi si sono opposti a Taormina. Il 25 giugno 2015, il giudice Pasquale Gianniti ha proposto una conciliazione tra le parti, invitando Franzoni a pagare 200.000 euro. Tuttavia, Franzoni si è sentita danneggiata per essere stata coinvolta nel processo Cogne bis e ha richiesto a Taormina un risarcimento di 200.000 euro.

Il 16 febbraio 2017, il giudice Giuseppina Benenati del tribunale civile di Bologna ha emesso una sentenza che condanna Annamaria Franzoni a risarcire l’avvocato Carlo Taormina di 275.000 euro per il compenso professionale mai percepito per la sua difesa nel processo sul “delitto di Cogne“. Sommata con l’IVA, gli interessi e la cassa previdenza degli avvocati, la somma totale dovuta ammonta a circa 450.000 euro.

La storia

Il 30 gennaio 2002, alle ore 8:28, la Valle d’Aosta del 118 ricevette una telefonata di emergenza dalla frazione Montroz di Cogne, da parte di Annamaria Franzoni. La donna chiedeva l’intervento di soccorsi sanitari, affermando di aver appena trovato il figlio Samuele, di 3 anni, che stava vomitando sangue nel proprio letto. La Franzoni aveva già contattato il medico di famiglia, la dottoressa Satragni, che intervenne sul posto per prima e ipotizzò una causa naturale, sostenendo a lungo questa ricostruzione.

La dottoressa affermò che il pianto disperato del bambino, scopertosi solo in casa, avrebbe potuto provocare “l’apertura della testa“. La vittima mostrava, infatti, una profonda ferita al capo con fuoriuscita di materia grigia. La dottoressa lavò il volto e il capo del piccolo e lo spostò fuori casa su una barella improvvisata, nonostante il freddo intenso, motivata dall’urgenza della rianimazione. Queste azioni compromisero tuttavia la scena del delitto e le condizioni della vittima. Le ipotesi iniziali vennero smentite dai soccorritori e successivamente dai risultati dell’autopsia.

I soccorritori sopraggiunti in elicottero constatarono che le ferite sul corpo della vittima erano frutto di un atto violento e avvisarono i carabinieri, che effettuarono i primi sopralluoghi. Il piccolo fu dichiarato morto alle ore 9:55. L’autopsia stabilì come causa del decesso almeno 17 colpi sferrati con un corpo contundente. Sul capo della vittima furono rinvenute microtracce di rame, facendo supporre l’uso di un mestolo ornamentale o oggetti composti da tale metallo. Lievi ferite sulle mani fecero supporre un estremo tentativo di difesa.

40 giorni dopo il delitto, la madre fu iscritta nel registro delle notizie di reato con l’accusa di omicidio e il 14 marzo 2002 venne arrestata con l’accusa di omicidio volontario, aggravato dal vincolo di parentela. Tuttavia, il tribunale del riesame di Torino, il 30 marzo, ne ordinò la scarcerazione per carenza di indizi.

Le indagini

Durante le indagini per l’omicidio, gli inquirenti hanno effettuato numerosi sopralluoghi all’interno della villetta, ma non sono riusciti a trovare l’arma del delitto. Si è ipotizzato che l’assassino abbia utilizzato un oggetto contundente come un mestolo di rame, una piccozza da montagna o un pentolino per bollire il latte, ma non ci sono prove certe a riguardo.

L’accusa ha basato la sua tesi principale sulla perizia eseguita con il luminol sulle tracce di sangue trovate sul pigiama della Franzoni, che è stato trovato parzialmente nascosto tra le coperte del letto solo diverse ore dopo il delitto. L’accusa sostiene che la donna avrebbe indossato il pigiama al momento del delitto, poiché le ampie macchie di sangue e i frammenti di osso e materia cerebrale della vittima sono stati trovati sulle maniche della casacca dell’indumento. Inoltre, le suole e le ciabatte da casa della Franzoni presentavano tracce di sangue della vittima. Non sono state trovate tracce di sangue di un terzo sospettato, che avrebbe potuto essere sporco del sangue della vittima dopo aver commesso l’omicidio. Secondo l’accusa, la Franzoni era l’unica persona presente nella zona al momento del delitto.

La difesa sostiene che la casacca e i pantaloni del pigiama non sono stati indossati dall’assassino, ma si trovavano sul piumone del letto. Inoltre, l’assassino sarebbe entrato nella villa dopo aver visto la Franzoni accompagnare il figlio maggiore alla fermata dello scuolabus, probabilmente per fare un dispetto o per altri motivi di natura sessuale. Trovando il piccolo Samuele nel letto, l’assassino sarebbe stato preso dall’agitazione e avrebbe colpito il bambino ripetutamente, per poi fuggire senza lasciare tracce di sangue in altre parti della casa. La difesa sostiene che l’assassino ha agito in meno di otto minuti, prima che la Franzoni o l’autista dello scuolabus si accorgessero della sua presenza.

È importante notare che non è stato rubato nulla di valore e non ci sono segni di effrazione su porte o finestre dell’abitazione. La borsetta abitualmente usata dalla Franzoni è stata trovata in casa, ma non sembra essere stata manomessa o toccata da qualcuno. La Franzoni ha dichiarato di aver chiuso la porta di casa al momento di uscire, ma in seguito ha cambiato versione, sostenendo di averla lasciata aperta per non far allarmare il figlio Samuele. Non sono state trovate impronte digitali o tracce organiche riconducibili a persone estranee nella villetta.

Nell’estate del 2004, dopo la condanna in primo grado della donna, l’avvocato Carlo Taormina e alcuni suoi consulenti hanno effettuato un sopralluogo nella villetta, durante il quale hanno annunciato il rinvenimento di un’impronta digitale insanguinata appartenente al “vero assassino” sulla porta della camera da letto, così come di tracce ematiche della vittima nel garage della casa. Tuttavia, successivamente si è scoperto che l’impronta digitale apparteneva a uno dei tecnici della difesa e che le asserite “tracce ematiche” non contenevano sangue umano, ma erano tracce di luminol. Inoltre, il giorno del delitto la porta basculante del garage era stata trovata chiusa senza alcun segno di effrazione.

Altri elementi dell’accusa furono tratti da comportamenti e conversazioni tenuti dalla Franzoni successivamente al delitto: ad esempio, una sua frase intercettata dai carabinieri durante una conversazione telefonica con un’amica il 6 marzo 2002 (“Non so cosa mi è successo”, subito corretta in “Non so cosa gli è successo”). Ulteriori intercettazioni telefoniche e ambientali permisero di rilevare come la donna, il marito e altri parenti discutessero su come “provocare” alcuni vicini di casa affinché confessassero il delitto. Ci fu persino una singolare osservazione del padre della donna: “Sarebbe meglio se l’assassino fosse senza figli“. Nel corso della stessa conversazione, il padre della Franzoni sostenne che sarebbe stato auspicabile che “tutti” i vicini confessassero, facendo riferimento a due coppie distinte e a una quinta persona. In un’altra intercettazione, si sentirono inoltre il padre e il marito della Franzoni ventilare l’ipotesi di far trovare un martello presso il terreno dei vicini, per sviare gli inquirenti o far loro credere che quella fosse l’arma del delitto, perduta dall’assassino durante la fuga.

Suscitò inoltre non pochi sospetti anche il fatto che, mentre il figlio veniva trasportato in elicottero all’ospedale, la Franzoni, rimasta in casa col marito per essere sentita dalle forze dell’ordine, continuasse a chiedergli con insistenza: “Aiutami a fare un altro figlio, facciamo un altro bambino?” Richiesta alla quale, a detta di un carabiniere, il marito sembrava essere infastidito e non rispondeva.

Il giorno successivo, durante un interrogatorio presso la locale caserma dei carabinieri, la donna affermò che “purtroppo ci sono anche delle madri che uccidono i figli, ce ne sono” e a un altro carabiniere che discuteva del fatto con lei, lo stesso giorno, dichiarò addirittura “spero che l’assassino sia stato ucciso, stia tranquillo…” stupendo non poco il militare che le chiese il perché di tale affermazione, domanda alla quale, peraltro, la donna rispose evasivamente.

Nel luglio 2004, Annamaria Franzoni e il suo marito Stefano Lorenzi presentarono una denuncia contro il vicino di casa Ulisse Guichardaz, accusandolo di essere il “vero assassino“. Gli attribuirono oscuri motivi e elencarono una serie di “indizi” singolari contro di lui, come l’abitudine di portare occhiali da sole per proteggersi dal riverbero dei ghiacciai ad alta quota, o il fatto che indossasse talvolta un parrucchino per nascondere la calvizie. Gli attribuirono anche intenzioni moleste e persecutorie nei confronti della donna, mai segnalate in precedenza agli inquirenti.

Negli anni successivi, Guichardaz fu ripetutamente interrogato e fornì sempre la stessa versione, sostenendo di essere stato svegliato attorno all’ora del delitto da una telefonata del padre che gli chiedeva di recarsi in paese per aprire il negozio di alimentari di cui la famiglia era titolare, e di aver trascorso l’intera mattinata lavorando nel negozio. Alla fine del primo processo, gli inquirenti giunsero alla conclusione che la sua versione e il suo alibi fossero attendibili, e i coniugi Lorenzi furono indagati per calunnia.

Nel processo d’appello, Guichardaz non fu più coinvolto, ma emersero pesanti allusioni nei confronti di un’altra vicina, Daniela Ferrod, con cui Annamaria Franzoni avrebbe avuto un banale screzio in passato. Nonostante le accuse rivolte contro di lei, Ferrod fu la prima persona a cui Franzoni chiese aiuto. Le perizie effettuate dai RIS e gli alibi dei sospettati hanno sempre condotto al loro scagionamento.

I processi

Annalisa Franzoni, assistita inizialmente dall’avvocato Carlo Federico Grosso, fu successivamente difesa dall’avvocato Carlo Taormina e, in ultimo, da una legale d’ufficio, Paola Savio. Nel processo di primo grado, il 19 luglio 2004, il giudice dell’udienza preliminare di Aosta, Eugenio Gramola, condannò Franzoni con rito abbreviato a 30 anni di reclusione (che sarebbero stati commutati in ergastolo se non avesse accettato il rito abbreviato). La difesa di Taormina, coadiuvata da consulenti, presentò nuove prove che furono messe in discussione in un nuovo processo, noto come Cogne bis, che coinvolse undici imputati, tra cui Franzoni, il marito Stefano Lorenzi e lo stesso avvocato Taormina, per calunnia e frode processuale.

Nel processo d’appello, conclusosi il 27 aprile 2007 presso la Corte d’Assise d’appello di Torino, la colpevolezza dell’imputata fu confermata ma la pena fu ridotta a 16 anni grazie alla concessione delle attenuanti generiche. Queste ultime furono ritenute bilancianti l’aggravante della commissione del fatto nei confronti del proprio discendente. La donna rimase in libertà in attesa della sentenza della Corte Suprema, poiché non fu considerata necessaria l’applicazione di misure cautelari personali, come pericolo di fuga, inquinamento delle prove o reiterazione del reato.

Il 21 maggio 2008 la Prima sezione penale della Corte Suprema di Cassazione confermò la sentenza d’appello. Nella stessa sera la Franzoni fu arrestata dai carabinieri a Ripoli Santa Cristina e portata in carcere. Le motivazioni della sentenza, lunghe circa 50 cartelle, furono pubblicate alla fine di luglio dello stesso anno.

Nel novembre 2008, su richiesta della stessa accusata, un’analisi psichiatrica ha riconosciuto il rischio di recidiva, negando alla donna la possibilità di incontrare i propri figli al di fuori della prigione.

Il 26 gennaio 2009, la Procura di Torino ha richiesto il processo per l’accusa di calunnia contro Ulisse Guichardaz e per frode processuale. Franzoni è stata condannata il 19 aprile 2011 dal Tribunale di Torino a un anno e 4 mesi. Successivamente, il 31 marzo 2014, la Corte d’Appello di Torino ha dichiarato prescritto tale reato.

Il 26 giugno 2014, dopo 6 anni di detenzione, Annamaria Franzoni è stata liberata grazie a una valutazione psichiatrica che ha escluso il rischio di recidiva. La donna già godeva del beneficio del lavoro all’esterno, nonché di numerosi permessi premio che le permettevano di uscire dalla prigione per trascorrere del tempo con la propria famiglia. Nel febbraio 2015, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della Procura della Repubblica di Bologna contro la concessione della detenzione domiciliare in favore di Annamaria Franzoni, ma il 28 aprile 2015, il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha prorogato la detenzione domiciliare, consentendo alla donna di scontarla nella sua casa a Ripoli Santa Cristina. Il 15 aprile 2016, il Tribunale di Sorveglianza ha respinto la richiesta di affidamento in prova ai servizi sociali presentata dai legali di Annamaria Franzoni.

Da settembre 2018, Annamaria Franzoni è definitivamente libera. Grazie all’indulto e ai giorni di liberazione anticipata, la sua pena di 16 anni di reclusione è stata ridotta a meno di 11. La notizia della fine della sua detenzione è diventata di pubblico dominio il 7 febbraio 2019.

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