Cosa vogliono fare Donald Trump e Kamala Harris sulla guerra a Gaza

Le elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 2024 si stanno delineando come un confronto serrato tra due candidati che incarnano posizioni diverse, ma non necessariamente opposte, riguardo al conflitto israelo-palestinese

Cosa vogliono fare Donald Trump e Kamala Harris sulla guerra a Gaza

Le elezioni presidenziali statunitensi del 2024 si stanno configurando come un confronto tra due candidati che rappresentano posizioni diverse, ma non necessariamente opposte, sul conflitto israelo-palestinese. Da un lato c’è Kamala Harris, attuale vicepresidente e candidata democratica, e dall’altro Donald Trump, ex presidente noto per il suo forte sostegno a Israele e per la sua politica di “massima pressione” nei confronti del Medio Oriente.

La questione centrale che molti si pongono, soprattutto in relazione alla crisi attuale a Gaza, è quale dei due candidati potrebbe risultare più dannoso per la causa palestinese. Harris, che rappresenta la continuità dell’amministrazione Biden, deve affrontare la sfida di bilanciare il sostegno istituzionale a Israele con le richieste di una base elettorale progressista che chiede un cambiamento nella politica estera degli Stati Uniti. Al contrario, Trump ha già mostrato una chiara inclinazione a sostenere Israele, ma la sua avversione per i conflitti militari prolungati potrebbe influenzare il suo approccio alla crisi a Gaza.

La campagna elettorale di Harris si trova in una posizione delicata. Sebbene l’amministrazione Biden abbia mantenuto una forte alleanza con Israele, il sostegno incondizionato alle operazioni militari di Tel Aviv ha generato malcontento all’interno del Partito Democratico, in particolare tra i più giovani e i progressisti. Un sondaggio del Pew Research Center ha rivelato che il 58% dei veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan ritiene che quei conflitti non siano stati giustificati, evidenziando una crescente stanchezza per l’interventismo militare.

Il sostegno incondizionato di Biden a Israele ha acuito questa divisione, alienando una parte significativa della sua base elettorale, che include giovani, progressisti e membri delle comunità arabe e musulmane. Molti di loro vedono la politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente come un sostegno diretto alle violenze a Gaza. Harris ha cercato di assumere una posizione più empatica, affermando che “non tacerà” sulla sofferenza palestinese, ma i suoi gesti sono stati percepiti come simbolici e non accompagnati da azioni concrete.

Nonostante i suoi tentativi di differenziarsi da Biden, Harris non ha ancora preso posizioni chiare che indichino un cambiamento radicale nella politica statunitense verso Israele e Gaza. La professoressa Eman Abdelhadi ha evidenziato che Harris ha ribadito il suo impegno per la sicurezza di Israele, senza considerare un embargo sulle armi, una misura che molti progressisti considererebbero necessaria per fermare il conflitto in Palestina.

La retorica più empatica di Harris sembra destinata a continuare, mentre il sostegno degli Stati Uniti a Israele appare destinato a rimanere invariato, almeno nel breve termine. George Bisharat, professore di legge, ha affermato che “Harris non si discosterà in modo significativo dalle politiche di Biden fino a quando non avrà vinto le elezioni”. Questo perché qualsiasi movimento che indebolisca il sostegno a Israele potrebbe alienare i donatori pro-Israele e ridurre le possibilità di vittoria nel 2024.

Dall’altra parte, Donald Trump ha giocato un ruolo chiave nel rafforzare le relazioni tra Stati Uniti e Israele durante il suo mandato. Il suo trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e gli Accordi di Abramo hanno rappresentato passi significativi nel consolidamento dell’alleanza con Israele. Tuttavia, nonostante la sua vicinanza a Netanyahu, Trump ha dimostrato una certa riluttanza a impegnarsi in conflitti militari prolungati, un atteggiamento che potrebbe offrire un’opportunità per un approccio diverso alla crisi a Gaza.

Secondo Bernd Kaussler, professore di scienze politiche, Trump “darebbe carta bianca a Netanyahu”, ma non è incline a innescare una guerra regionale. Questo contrasta con la percezione che Harris, pur mantenendo un tono più compassionevole, potrebbe perpetuare lo status quo a Gaza senza fare significativi passi avanti verso una soluzione politica.

Entrambi i candidati sono fortemente influenzati dalla potente lobby israeliana negli Stati Uniti, un fattore che condiziona le loro posizioni politiche. Joshua Landis, a capo del Center for Middle East Studies, ha osservato che “il denaro che gli americani pro-Israele versano alle elezioni è indispensabile”. Questo implica che, nonostante le differenze retoriche, né Harris né Trump sono probabilmente disposti a allontanarsi significativamente da Israele.

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