Strage delle Fosse Ardeatine

L’eccidio delle Fosse Ardeatine rappresentò l’uccisione di 335 civili e militari italiani avvenuta a Roma il 24 marzo 1944 per ordine delle truppe di occupazione tedesche

Strage delle Fosse Ardeatine

Strage delle Fosse Ardeatine. L’eccidio delle Fosse Ardeatine rappresentò l’uccisione di 335 civili e militari italiani, inclusi prigionieri politici, ebrei e detenuti comuni, avvenuta a Roma il 24 marzo 1944 per ordine delle truppe di occupazione tedesche. Questa terribile azione fu una rappresaglia per l’attentato partigiano di via Rasella, avvenuto il 23 marzo, in cui persero la vita 33 soldati del reggimento “Bozen” dell’Ordnungspolizei, la polizia tedesca. L’eccidio fu eseguito senza alcun preavviso da parte dei tedeschi.

Per la brutalità dell’atto, il grande numero di vittime e le tragiche circostanze che lo circondarono, l’eccidio delle Fosse Ardeatine divenne simbolo della ferocia dell’occupazione tedesca di Roma. Rappresentò inoltre la più grande strage di ebrei avvenuta in Italia durante l’Olocausto, poiché almeno 75 delle vittime erano arrestate per motivi razziali.

Le Fosse Ardeatine, antiche cave di pozzolana situate vicino alla via Ardeatina, furono scelte come luogo dell’esecuzione e per occultare i corpi delle vittime. Dopo la guerra, furono trasformate in un sacrario-monumento nazionale. Oggi sono aperte al pubblico e ospitano cerimonie commemorative.

Storia
Occupazione tedesca di Roma

Dopo l’armistizio di Cassibile nel settembre 1943 e l’ingresso delle truppe tedesche a Roma, la città passò sotto il controllo effettivo dei tedeschi il 12 settembre. Nonostante il governo italiano avesse dichiarato Roma una “città aperta” il mese precedente, gruppi di resistenza si organizzarono nella capitale sin dai primi giorni dell’occupazione tedesca. Il Fronte militare clandestino (“Centro X“), guidato dal colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, fu uno di questi gruppi, insieme a nuclei comunisti armati dal generale Carboni già il 10 settembre.

Anche se ufficialmente sottoposta alla sovranità della Repubblica Sociale Italiana (RSI), Roma era di fatto governata dai tedeschi, soprattutto dopo che l’intera provincia romana fu dichiarata “zona di operazioni” a seguito dello sbarco di Anzio nel gennaio 1944. Il feldmaresciallo Albert Kesselring nominò Herbert Kappler, ufficiale delle SS, capo della Gestapo di Roma, conferendogli il controllo dell’ordine pubblico in città.

Kappler avviò una campagna di terrore con rastrellamenti e arresti, decimando i gruppi della Resistenza romana durante l’inverno 1943-44. Solo i GAP comunisti riuscirono a mantenere una certa efficienza operativa.

La convinzione che Roma fosse un teatro di guerra, data la sua vicinanza al fronte, portò i quadri comunisti della Resistenza a decidere di reagire militarmente contro l’occupante. Scelsero il 23 marzo, anniversario della fondazione dei fasci di combattimento, per un’azione simbolica di attacco.

L’attentato in via Rasella

Il 23 marzo 1944, un’azione di guerra partigiana colpì l’11ª compagnia del III battaglione del PolizeiregimentBozen” in via Rasella, Roma. L’azione fu condotta dai partigiani dei Gruppi di Azione Patriottica delle brigate Garibaldi, che facevano ufficialmente parte della Giunta militare emanata dal Comitato di Liberazione Nazionale.

Mario Fiorentini (nome di battaglia Giovanni), residente vicino a via Rasella, individuò il reparto come obiettivo poiché poteva vedere “ogni pomeriggio” i militari “in pieno assetto di guerra” dal suo domicilio. Giorgio Amendola, principale responsabile dei GAP, diede le direttive, ma lasciò “assoluta libertà d’iniziativa” al comando partigiano, senza responsabilizzare i soldati del reparto. Il Polizeiregiment “Bozen” era formato da soldati addestrati e fu descritto da Amendola come un “battaglione di gendarmeria” in assetto di guerra durante il passaggio in via Rasella.

L’attacco coinvolse 12 partigiani. Venne utilizzata una bomba a miccia ad alto potenziale, collocata in un carretto per la raccolta dei rifiuti urbani, contenente 18 kg di esplosivo mescolato a frammenti di ferro. Dopo l’esplosione, furono lanciate alcune bombe a mano dai tetti delle case per confondere e creare l’impressione che le bombe fossero partite dai palazzi circostanti (dove vennero arrestati i primi 100 cittadini ignari). L’attacco causò la morte di 32 militari dell’11ª Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment Bozen e di un altro soldato il giorno seguente. Due civili italiani, Antonio Chiaretti (partigiano della formazione Bandiera Rossa) e il tredicenne Piero Zuccheretti, persero la vita a causa dell’esplosione.

La rappresaglia
Processo decisionale tedesco

Subito dopo l’attentato di via Rasella, che aveva ucciso 33 soldati tedeschi, le autorità militari tedesche a Roma si attivarono per organizzare una rappresaglia. Il primo a giungere sul luogo fu il questore Pietro Caruso, seguito dal generale Kurt Mälzer, comandante della piazza di Roma, che apparve sconvolto e proclamò la volontà di procedere a una “vendetta per i miei poveri kameraden“.

Il generale Mälzer parlò di distruggere l’intero quartiere e di eliminare gli abitanti, ma il consigliere d’ambasciata Moellhausen e il colonnello Kappler cercarono di calmarlo. Il colonnello Kappler assicurò che avrebbe svolto un’indagine immediata per appurare modalità e responsabili dell’attacco.

Il generale Mälzer avvertì immediatamente il comando supremo tedesco in Italia, ma non riuscì a parlare con il feldmaresciallo Kesselring, che si trovava nella testa di ponte di Anzio. Fu quindi il capo ufficio operazioni, colonnello Dietrich Beelitz, a telefonare al quartier generale di Rastenburg, dove Adolf Hitler venne informato nel primo pomeriggio e dispose una rappresaglia immediata “che avrebbe fatto tremare il mondo“.

Tuttavia, non esistono documenti che provino l’esistenza di un ordine diretto di Hitler con la precisa determinazione dell’entità della rappresaglia. In realtà, la decisione finale fu presa durante una conversazione telefonica tra il generale Mälzer, il colonnello Kappler e il generale Eberhard von Mackensen, comandante della 14ª Armata. Quest’ultimo, dopo essersi consultato con Kappler, ritenne che fosse sufficiente fucilare dieci italiani per ogni tedesco morto in via Rasella, scegliendo le vittime tra i prigionieri già condannati a morte o all’ergastolo.

La decisione definitiva venne presa in serata, dopo il ritorno del feldmaresciallo Kesselring al suo posto di comando. Egli approvò la proposta del generale von Mackensen, comunicando di procedere alla rappresaglia dieci contro uno con “esecuzione immediata“. Kesselring chiarì che non fu attivata alcuna procedura precedente la rappresaglia per fare appello alla popolazione o agli attentatori, e che non venne emesso alcun avvertimento pubblico.

Scelta degli italiani da fucilare

Il generale Mälzer, dopo un colloquio con il generale von Mackensen, incaricò il colonnello Herbert Kappler di individuare una lista di prigionieri italiani da fucilare, a seguito della morte di ventotto soldati tedeschi a via Rasella. Kappler iniziò a raccogliere i nomi di 280 Todeskandidaten, ma si rese conto della difficoltà di individuare così rapidamente un numero così elevato di persone. Dopo aver consultato il questore Caruso, che promise una lista di 50 prigionieri, Kappler considerò anche di includere i 75 ebrei imprigionati in attesa di deportazione.

Il generale Harster sollecitò Kappler a completare la lista includendo tutti gli ebrei necessari. Il giudice generale Keller approvò l’operato di Kappler, ritenendo la proporzione della rappresaglia adeguata secondo la legge tedesca di autodifesa. Kappler e il capitano Priebke, insieme ai loro uomini, lavorarono freneticamente per individuare i nomi da inserire nell’elenco. Dopo che il numero dei soldati tedeschi morti salì a 32, Kappler dovette trovare 320 italiani da condannare a morte per mantenere la proporzione stabilita.

La ricerca dei Todeskandidaten divenne sempre più intensa, includendo anche uomini arrestati in attesa di giudizio per varie accuse. Kappler decise di includere anche ebrei e antifascisti di religione ebraica, tra cui il colonnello Cordero Lanza di Montezemolo e altri militari italiani di alto rango. Dopo aver aggiunto alla lista anche altri prigionieri, Kappler ritenne di aver raggiunto il numero previsto di condannati a morte.

Nonostante le difficoltà e le pressioni, il questore Caruso non riuscì a fornire la lista in tempo. Dopo un incontro con il ministro Buffarini Guidi, che si limitò a dire di dare i nomi, Caruso si confrontò con Kappler, che esigeva la lista. Alla fine, Kappler e i suoi uomini furono incaricati direttamente dell’esecuzione delle fucilazioni, con il coinvolgimento personale del colonnello Kappler e del capitano Priebke. Questo tragico episodio si concluse con l’esecuzione dei prigionieri italiani designati nella lista.

Esecuzione della rappresaglia

Il colonnello Herbert Kappler, su ordine del generale Mälzer, comunicò ai suoi uomini che entro poche ore avrebbero dovuto uccidere 320 italiani come rappresaglia per l’attentato di via Rasella. Tutti i membri del reparto, inclusi gli ufficiali, furono coinvolti nelle esecuzioni come atto simbolico. Kappler affrontò sfide tecniche riguardanti le modalità e il luogo delle fucilazioni, disponendo di 74 uomini in totale. Su proposta del capitano Köhler, si scelsero gallerie sotterranee abbandonate in via Ardeatina come luogo dell’eccidio, dopo un sopralluogo con genieri dell’esercito. Kappler stabilì che le uccisioni fossero dirette dal capitano Carl Schütz e che il capitano Priebke controllasse la lista delle vittime.

Ulteriori difficoltà emersero quando Kappler apprese della morte di 33 soldati tedeschi in via Rasella. Deciso a eseguire la rappresaglia con precisione, aggiunse autonomamente altri dieci ebrei arrestati all’elenco delle vittime. Nel pomeriggio, i prigionieri furono condotti con le mani legate alle cave ardeatine, distanti circa 4 km da via Tasso. Le gallerie scelte, tra le catacombe di San Callisto e Domitilla, misuravano da 30 a 90 metri di lunghezza. Prima dell’arrivo dei condannati, Schütz, con personale poco esperto di armi, illustrò la missione agli uomini. Kappler affermò che la loro partecipazione diretta era indispensabile per rinsaldare il morale.

Alle ore 15.30 arrivarono anche i prigionieri provenienti da Regina Coeli e dopo pochi minuti ebbero inizio le esecuzioni. I prigionieri, suddivisi in gruppi di cinque, vennero condotti nelle gallerie illuminate da soldati tedeschi muniti di torce elettriche; all’entrata del luogo di esecuzione il capitano Priebke richiedeva il nome al condannato e controllava la lista; quindi le vittime venivano fatte inginocchiare e gli esecutori, all’ordine del capitano Schütz, sparavano un colpo di pistola dall’alto in basso all’altezza del collo; in questo modo si riteneva di ottenere una morte immediata. Un soldato accanto all’esecutore illuminava la scena con un’altra torcia. Il colonnello Kappler prese parte al secondo turno di eliminazione; il capitano Priebke invece sparò con il terzo turno. In totale furono effettuati 67 turni di esecuzioni; mentre all’inizio la procedura di annientamento delle vittime sembrò avviarsi con precisione e disciplina, con il passare del tempo la situazione divenne più confusa.

Alcune vittime cercarono di opporre resistenza e dovettero essere sottomesse con la forza; la massa crescente di cadaveri venne accatastata per lasciare spazio a disposizione; alla fine, per accelerare i tempi, si decise di far salire le vittime e gli esecutori sopra lo strato di corpi e si formarono pile di cadaveri. Alcuni carnefici non eseguirono con precisione l’esecuzione; fu necessario sparare ripetutamente sulla stessa vittima, molti corpi furono devastati e mutilati dai colpi, alcune vittime non morirono istantaneamente. Per sostenere il morale dei suoi uomini il colonnello Kappler prese parte a un secondo turno di esecuzioni; egli convinse a sparare anche il tenente Wetjen, che in un primo tempo si era rifiutato; tutti gli ufficiali, su ordine del colonnello, effettuarono una seconda esecuzione; solo il sottotenente Günther Amonn, completamente sconvolto, non riuscì a sparare e venne messo da parte.

Mentre si procedeva con l’eliminazione sistematica delle vittime indicate nella lista tedesca del capitano Priebke, il colonnello Kappler era in ansiosa attesa dell’arrivo dei cinquanta uomini promessi dal questore Caruso. Caruso, nel frattempo, cercava di guadagnare tempo e non aveva ancora completato la lista. Alle 16:30, il tenente Tunnat e il sottotenente Kofler arrivarono a Regina Coeli e pretesero subito i 50 prigionieri. Poiché la lista di Caruso non era pronta, il tenente Tunnat radunò casualmente i prigionieri; tra questi, alcuni erano effettivamente nella lista del questore, ma 10 di loro erano detenuti che stavano per essere rilasciati.

Il tenente Tunnat portò circa trenta uomini alle cave ardeatine e, dopo alcune ore, tornò a Regina Coeli, dove nel frattempo era arrivata la lista di Caruso. L’ufficiale tedesco prese gli ultimi 20 detenuti, che giunsero alle cave ardeatine quando era ormai sera. Le ultime venticinque esecuzioni terminarono alle ore 20. Il colonnello Kappler, al termine dell’operazione, parlò ai suoi uomini, ammettendo che era “stato molto difficile” ma affermando che “la rappresaglia era stata eseguita” secondo le “leggi di guerra“.

Durante l’esecuzione delle vittime, il capitano Priebke controllò attentamente la lista, verificando il numero delle vittime. Alla fine dell’operazione, Priebke notò che c’erano cinque uomini in più rispetto ai 330 previsti. Il colonnello Kappler, informato da Priebke, decise di procedere all’eliminazione anche di questi cinque ostaggi in più, motivando la decisione, come riferito dal maggiore SS Karl Hass durante il secondo processo del dopoguerra, con il fatto che “avevano visto tutto“.

Lo storico tedesco Gerhard Schreiber, condannando la “efferatezza e furia vendicativa” dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, ha scritto che “la messa in pratica dell’esecuzione può soltanto essere definita bestiale“.

Tentativo di occultamento e commemorazione

Il 24 marzo 1944, dopo l’uccisione di 335 civili italiani alle Fosse Ardeatine da parte dei nazisti, il colonnello Kappler ordinò di occultare l’eccidio. I soldati del genio tedeschi minarono gli accessi alle gallerie e fecero esplodere le cariche, sbarrando le entrate per mantenere l’assoluta segretezza sull’accaduto. Alcuni religiosi salesiani, che fungevano da guide alle catacombe, udirono le esplosioni finali e, dopo aver osservato il frenetico movimento di automezzi tedeschi nella zona durante l’intera giornata, approfittarono della notte per entrare nelle cave, trovandosi di fronte a uno spettacolo orrendo: i cadaveri erano ammassati in gruppi alti oltre un metro e mezzo.

A 30 giorni dall’eccidio, la sera del 24 aprile 1944, un gruppo di partigiani di Bandiera Rossa volle commemorare i compagni uccisi. I partigiani si recarono all’ingresso della cava, disarmarono gli uomini della Polizia dell’Africa italiana posti a guardia per impedire azioni commemorative, ed esposero un cartello con scritto: “I partigiani di Bandiera Rossa vi vendicheranno“.

Primi tentativi nazifascisti di giustificare l’eccidio

Durante la Seconda Guerra Mondiale, in Italia, il movimento di resistenza italiano, noto come Resistenza italiana o La Resistenza, rappresentò la lotta contro le forze di occupazione della Germania nazista e i collaborazionisti fascisti della Repubblica Sociale Italiana. Questo movimento anti-fascista e anti-nazista si oppose alla Germania nazista e al regime fascista italiano, creato dai tedeschi dopo l’invasione e l’occupazione militare dell’Italia dal settembre 1943 al 25 aprile 1945.

La Resistenza italiana iniziò con l’invasione tedesca dell’Italia il 9 settembre 1943, quando i partigiani italiani, conosciuti come partigiani, combatterono una guerra di liberazione nazionale contro le forze tedesche invasori. Questi partigiani anti-fascisti parteciparono anche alla Guerra Civile Italiana, combattendo contro i fascisti italiani della Repubblica Sociale Italiana.

La Resistenza era una coalizione diversificata di vari partiti politici italiani, combattenti indipendenti e soldati, e brigate partigiane e milizie. La Repubblica Italiana moderna fu fondata sulla lotta della Resistenza: l’Assemblea Costituente era composta principalmente dai rappresentanti dei partiti che avevano dato vita al Comitato di Liberazione Nazionale della Resistenza italiana. Questi ex combattenti della Resistenza italiana scrissero la Costituzione italiana alla fine della guerra basandosi su una sintesi compromissoria dei principi democratici e anti-fascisti dei loro partiti di Resistenza.

La Resistenza italiana si sviluppò in varie regioni, con gruppi organizzati e guidati da partiti politici precedentemente banditi o da ex ufficiali dell’Esercito Italiano Reale. Molte formazioni partigiane furono inizialmente fondate da soldati di unità sciolte dell’Esercito Italiano Reale che erano sfuggiti alla cattura nell’Operazione Achse, e furono guidate da ufficiali junior dell’Esercito che avevano deciso di resistere all’occupazione tedesca. Successivamente, questi gruppi furono sempre più politicizzati e si unirono agli antifascisti, diventando sempre più politici.

Il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), creato dal Partito Comunista Italiano, dal Partito Socialista Italiano, dal Partito d’Azione, dalla Democrazia Cristiana e da altri partiti minori, prese il controllo del movimento in accordo con i ministri del Re Vittorio Emanuele III e gli Alleati. Il CLN fu istituito dai partigiani dietro le linee tedesche e aveva il sostegno della maggior parte dei gruppi nella regione.

Vittime

L’eccidio delle Fosse Ardeatine fu una terribile rappresaglia nazista compiuta a Roma il 24 marzo 1944, in risposta all’attentato partigiano di via Rasella avvenuto lo stesso giorno, in cui erano rimasti uccisi 33 soldati tedeschi. In totale, furono fucilate 335 persone, tra cui partigiani, ebrei, detenuti comuni e alcuni rastrellati a caso.

Tra le vittime identificate, circa 39 erano ufficiali, sottufficiali e soldati appartenenti alle formazioni clandestine della Resistenza militare, 52 aderenti alle formazioni del Partito d’Azione e di Giustizia e Libertà, 55 a Bandiera Rossa (un’organizzazione comunista non legata al CLN), 19 fratelli massoni (tra cui 3 anarchici) e 75 di religione ebraica. Altri detenuti comuni furono uccisi per raggiungere il numero previsto di 335 vittime.

Almeno 9 delle vittime erano straniere, provenienti da Polonia, Ungheria, Germania e Ucraina. Tra loro, il giovane pugile ebreo Lazzaro Anticoli, arrestato per errore al posto del fratello di una delatatrice.

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