Perché si dice “scemo di guerra”?

L’espressione “scemo di guerra” è largamente diffusa e di uso comune. Perché si dice così e qual è il significato

Perché si dice scemo di guerra
Perché si dice scemo di guerra. L’espressione “scemo di guerra” viene usata nel linguaggio comune per “rivolgendosi con fare denigratorio verso una persona“.

Si tratta di un modo di dire che trae origine dalla Grande Guerra, e nello specifico dai numerosi casi di “scemi” provenienti dal fronte di combattimento, cioè di soldati a cui lo stress e le condizioni di vita terribili avevano arrecato conseguenze pesanti sulla psiche, con effetti devastanti sulla vita quotidiana. Questi soldati venivano rinchiusi in manicomi dove i dottori tentavano, con metodi poco ortodossi, di riportarli alla normalità.

Migliaia di soldati furono ricoverati per disturbi mentali: negli ospedali si trovavano reduci estraniati e muti, che camminavano come automi, con i muscoli irrigiditi. La gente li chiamava “scemi di guerra“. Le cartelle cliniche parlavano di “tremori irrefrenabili“, di “ipersensibilità al rumore“, di “uomini inespressivi, che volgono intorno a sé lo sguardo come uccelli chiusi in gabbia“, che “camminano con le mani penzoloni e piangono in silenzio” o che “mangiano quello che capita, cenere, immondizia, terra“.

Nel corso del conflitto i ricoveri per cause nervose e mentali sono stati 80000 in Inghilterra, 315000 in Germania e 98000 negli Stati Uniti. Per l’Italia non esistono dati ufficiali, ma gli storici ipotizzano che i soldati internati per problemi psichici siano stati circa 40000.

Shock da bombardamento

Questi quadri clinici suscitarono l’interesse degli psichiatri (in Italia erano stati riconosciuti ufficialmente nel 1872 ed erano diventati influenti a partire dal 1904, grazie alla legge che istituiva i manicomi).

Su Lancet (una delle riviste mediche più autorevoli), nel 1915, lo psicologo Charles Myers usò per la prima volta l’espressione “shell shock” (“shock da bombardamento“). Myers ipotizzava che le lesioni cerebrali fossero provocate dal frastuono dei bombardamenti oppure dall’avvelenamento da monossido di carbonio. Ma presto si scoprì che alla base di questi disturbi c’era qualcos’altro, perché i sintomi si manifestavano anche in persone che non si trovavano in prossimità di bombardamenti.

Poi, nel 1917, il neurologo francese Joseph Babinski attribuì i sintomi a fenomeni di isteria, un disturbo che si riteneva diffuso solo tra le donne (la parola deriva dal greco “isteros” e significa “utero”). Quindi, suggerì di curarlo come allora si trattava l’isteria femminile: con l’ipnosi. I trattamenti talvolta funzionavano (i sintomi scomparivano o si riducevano).

Così, si diffuse l’idea che questi quadri clinici fossero frutto di simulazioni per non combattere ed essere congedati. Questo diede il via all’accusa di “femminilizzazione” o di “omosessualità latente“, e a una serie di trattamenti di tipo punitivo, come aggressioni verbali e “faradizzazioni” (forti scosse di corrente elettrica alla laringe in caso di mutismo o alle gambe in caso di immobilità).

Disturbo post-traumatico da stress

Oggi, in psicologia e psichiatria la patologia è formalmente riconosciuta come “malattia debilitante” o “disturbo post-traumatico da stress” (DPTS) (o Post-Traumatic Stress Disorder, PTSD) che è definito come “insieme delle forti sofferenze psicologiche che conseguono ad un evento traumatico, catastrofico o violento“.

È denominato anche “nevrosi da guerra“, proprio perché inizialmente è stato riscontrato in soldati coinvolti in pesanti combattimenti o in situazioni belliche di particolare drammaticità (con nomi e sottotipi diversi: Combat Stress Reactions, Battle Fatigue, Shell Shocks, ecc.).

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