Cos’è l’omicidio di Giuseppe Uva?

Giuseppe Uva morì dopo essere stato fermato ubriaco da due carabinieri nella notte tra il 13 e il 14 giugno. I militari lo portarono in caserma e poi, per un trattamento sanitario obbligatorio, nell’ospedale di Varese, dove morì la mattina successiva per arresto cardiaco

Cos'è l'omicidio di Giuseppe Uva?
Cos’è l’omicidio di Giuseppe Uva? Giuseppe Uva morì il 14 giugno 2008, dopo essere stato fermato ubriaco da 2 carabinieri nella notte tra il 13 e il 14 giugno. I militari lo portarono in caserma e poi, per un trattamento sanitario obbligatorio, nell’ospedale di Varese, dove morì la mattina successiva per arresto cardiaco.

Secondo l’accusa, la morte fu causata dalla costrizione fisica subita durante l’arresto e dalle successive violenze e torture in caserma. Nonostante ciò, il processo contro i 2 carabinieri che eseguirono l’arresto e contro altri 6 agenti di polizia li ha assolti dalle accuse di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona.

La storia

Giuseppe Uva, artigiano di Varese di 43 anni, venne fermato la notte del 14 giugno 2008 insieme ad un suo amico, Alberto Biggiogero, mentre i 2, ubriachi, stavano facendo rumore e spostando delle transenne in via Dandolo, nel centro di Varese.

I due si spostarono in una via vicina mentre i carabinieri rimettevano a posto le transenne.

Successivamente, i due cominciarono a trascinare un cassonetto in mezzo alla strada e i carabinieri chiesero loro i documenti per prendere le generalità. Poiché Uva rifiutò di fornire i documenti e cominciò a urlare in piena notte (minacciando un residente che era sveglio e prendendo a calci e pugni il portone d’ingresso), fu ammanettato e, nello stesso momento, arrivarono 2 auto della polizia che fermarono Biggiogero.

I due furono portati in caserma dove Uva fu trattenuto per alcune ore e, secondo Biggiogero che era con lui, fu vittima di violenza fisica, dopo il quale venne trasferito presso l’ospedale di Varese dove, la mattina successiva, morì per arresto cardiaco. La sorella di Giuseppe Uva, Lucia, ritenendo che il fratello avesse subito delle violenze, presentò un esposto alla Procura di Varese che portò a processo i 2 carabinieri e i 6 poliziotti.

Lucia, giunta nella camera dell’obitorio dove si trovava il cadavere del fratello, notò alcuni segni di violenza.

Le indagini

Inizialmente, lo psichiatra Carlo Fraticelli fu indagato e accusato di omicidio colposo. Secondo l’accusa sostenuta dal pubblico ministero Agostino Abate, la morte di Uva sarebbe stata causata da un’errata somministrazione di farmaci. Nel 2012, tuttavia, il Tribunale di Varese assolse Fraticelli perché il fatto non sussiste. Il giudizio fu confermato l’anno successivo in appello.

Anche altri 2 medici, Matteo Catenazzi ed Enrica Finazzi, furono indagati ma entrambi furono prosciolti rispettivamente in udienza preliminare e con il rito abbreviato.

Il giudice per le indagini preliminari respinse la richiesta di archiviazione con cui il procuratore Agostino Abate aveva chiuso le indagini sulla morte.

Il presidente della commissione Diritti umani del Senato, Luigi Manconi, si interessò alla vicenda appoggiando la tesi della sorella della vittima. Affermò che “non esagerava nel denunciare, quasi da sola, le responsabilità di chi non aveva nemmeno voluto ascoltare un testimone oculare“. A seguito di ciò, il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ordinò un’ispezione per cercare di fare luce su “una vicenda particolarmente dolorosa, tuttora con punti oscuri che devono essere chiariti, e rispetto ai quali non si è ancora pervenuti a una risposta giudiziaria convincente“. Il giudice affermò che la vittima venne percossa “da uno o più presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali“.

Fu anche ascoltato l’unico testimone, Alberto Biggiogero, che era con Uva quando entrambi la notte del 14 giugno vennero fermati dai carabinieri. Confermò ai magistrati di avere sentito Uva in caserma urlare e chiedere aiuto.

In seguito, l’inchiesta fu tolta ad Abate, che venne “sanzionato sul piano disciplinare per le omissioni durante l’indagine e per un interrogatorio al testimone oculare che mortifica le regole processuali dello Stato di diritto” e affidata al sostituto procuratore generale Felice Isnardi (in quel momento procuratore capo facente funzioni di Varese). All’udienza preliminare, chiese il proscioglimento di tutti gli imputati da tutte le accuse per insussistenza dei fatti. Tuttavia, il giudice dell’udienza preliminare decise il rinvio a giudizio dei 2 carabinieri e dei 6 poliziotti per “abbandono di incapace, arresto illegale e abuso di autorità“.

I processi

Il processo presso la Corte d’assise di Varese ebbe inizio nell’ottobre del 2014. Durante le udienze, i parenti di Giuseppe Uva continuarono a sostenere l’ipotesi che la morte fosse dovuta al pestaggio, citando alcuni lividi come prova. In particolare, dichiararono di aver notato dei segni neri sulle caviglie e sui testicoli, ma i responsabili della camera mortuaria affermarono che si trattava di sangue che si accumula sotto tutte le salme.

Per quanto riguarda i lividi presenti sul corpo, tutti i periti convennero sul fatto che non erano sufficienti a causare la morte.

Inoltre, la sorella Lucia sostenne che Uva avesse il sedere sporco di sangue a causa delle percosse subite, ma tutti i sanitari negarono tale affermazione, dichiarando di non aver visto tracce di sangue.

Il testimone chiave del processo, Alberto Biggiogero, cadde più volte in contraddizione: affermò di aver cenato nell’appartamento di Uva quella sera e di aver cucinato, ma suo padre lo smentì dichiarando che i due si erano recati a cena nella sua abitazione con la moglie.

Lo stesso padre smentì nuovamente il figlio quando questi negò di aver raccolto il verbale d’arresto e affermò di non aver sentito urlare nessuno quando arrivò in caserma. In precedenza, Alberto Biggiogero era stato ricoverato per esaurimento nervoso e nel suo diario clinico venne scritto che aveva un “evidente tratto manipolatorio e parassitario“, tendeva cioè “a raccontare la versione dei fatti per quello che gli era utile“.

Secondo la versione degli imputati, mentre si trovavano nell’ufficio della caserma, Uva cominciò a dare testate contro l’armadio e lanciò la scrivania contro gli agenti. Successivamente, alternò momenti di agitazione a momenti di tranquillità. Per questi motivi, decisero di chiamare una guardia medica. Quest’ultima riferì che, giunta nell’ufficio, vide Uva lanciarsi contro di lei e, per precauzione, fu nuovamente ammanettato. Sempre secondo il racconto della guardia medica, Uva iniziò a battere la testa contro il muro e a un certo punto, spingendosi con le proprie gambe, cadde a terra sul lato destro, senza che nessuno lo stesse toccando.

La dottoressa Enrica Finazzi, uno dei medici del pronto soccorso, raccontò che Giuseppe Uva si rifiutò di farsi fare una lastra e gli disse di essere stato picchiato dalle forze dell’ordine mentre era in caserma. Tuttavia, questa affermazione è stata considerata poco credibile dall’accusa, poiché la dottoressa non l’aveva riferita né agli inquirenti né ai colleghi, e poiché non risultava nei referti.

Il 15 aprile 2016 la Corte d’assise di Varese assolse gli imputati dalle accuse di percosse, abbandono di incapace e omicidio preterintenzionale perché il fatto non sussiste, mentre per il reato di arresto illegale, riqualificato in sequestro di persona, i giudici assolsero i poliziotti per non aver commesso il fatto e i carabinieri perché il fatto non costituisce reato.

Il pubblico ministero, Daniela Borgonovo, aveva richiesto l’assoluzione di tutti gli imputati dall’accusa di arresto illegale poiché il fatto non costituisce reato e dagli altri capi di imputazione perché il fatto non sussiste, spiegando: “Non ci sono in tutta la vicenda comportamenti illegali che possano fondare una responsabilità penale degli imputati. Certe cose sicuramente non sono successe. Sicuramente. Per altre non c’è neanche un indizio di prova. Questa è la situazione. In definitiva non abbiamo trovato prove della responsabilità degli imputati nella morte di Giuseppe Uva, nemmeno per un dubbio ragionevole. Certamente non oltre ogni ragionevole dubbio“.

Secondo le motivazioni della sentenza, le perizie dimostrano che “non è presente in maniera assoluta qualsiasi lesione che abbia determinato o contribuito a determinare il decesso di Giuseppe Uva“.

La Procura generale di Milano, rappresentata dal magistrato Massimo Gaballo, ha fatto appello chiedendo la condanna degli imputati, affermando che le azioni messe in atto dagli agenti, protrattesi in modo “violento e ingiusto“, avrebbero causato la morte della vittima aggravando una preesistente patologia cardiaca. L’accusa ha chiesto la condanna per omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale. Alla fine della requisitoria, l’accusa ha richiesto 13 anni di reclusione per i carabinieri e 10 anni e 6 mesi per i poliziotti.

Tuttavia, il 31 maggio 2018, la Corte d’assise d’appello di Milano ha assolto gli imputati dal reato di sequestro di persona perché il fatto non sussiste e ha confermato la sentenza di primo grado per il resto, condannando le parti civili appellanti al pagamento delle spese processuali.

Nella motivazione dell’assoluzione degli imputati dal reato di sequestro di persona, i giudici hanno scritto che Giuseppe Uva, di fronte ai due carabinieri, “ha reagito alle loro richieste in modo aggressivo fin dall’inizio, al contrario di Biggiogero“, e che l’ammanettamento è stato necessario per portarlo in caserma. Inoltre, hanno aggiunto che se gli agenti avessero voluto picchiarlo, come sostenuto dall’accusa, non avrebbero chiesto l’aiuto di testimoni non appartenenti alla stessa forza dell’ordine.

Il 8 luglio 2019, la sentenza è stata confermata in Cassazione.

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