AGI – OLTRE 7 MILIONI DI PERSONE COLPITE DA ALLUVIONI IN AFRICA

Secondo i dati recenti diffusi dall’Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, più di 7 milioni di persone sono state colpite da inondazioni in 16 Paesi dell’Africa occidentale e centrale

OLTRE 7 MILIONI DI PERSONE COLPITE DA ALLUVIONI IN AFRICA

Secondo i dati recenti diffusi dall’Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, più di sette milioni di persone sono state colpite da inondazioni in 16 Paesi dell’Africa occidentale e centrale. Tra i Paesi più colpiti figurano Ciad, Niger, Nigeria e Repubblica Democratica del Congo (RDC). Le condizioni critiche create dai fenomeni climatici estremi si stanno ulteriormente aggravando, influenzando particolarmente le regioni già vulnerabili a causa di disastri naturali precedenti e conflitti.

In una conferenza stampa, il portavoce delle Nazioni Unite Stephane Dujarric ha sottolineato che le risorse disponibili sono limitate per affrontare la crisi, nonostante gli sforzi delle agenzie dell’ONU e dei partner internazionali. “I nostri colleghi avvertono che la situazione rischia di peggiorare, soprattutto in Africa centrale, dove la stagione delle piogge continuerà fino al mese prossimo”, ha dichiarato Dujarric, esprimendo preoccupazione per l’impatto di ulteriori piogge nelle prossime settimane.

Il Fondo centrale di risposta alle emergenze (CERF), istituito dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2005, ha stanziato 38,5 milioni di dollari per sostenere i Paesi più colpiti, tra cui Camerun, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Niger, Nigeria e Congo. Questo stanziamento supera l’importo totale dei finanziamenti CERF destinati alle inondazioni negli ultimi quattro anni, ma si teme che tali fondi possano essere insufficienti per far fronte alla portata della crisi attuale.

La scorsa settimana, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ha lanciato un appello per l’assistenza d’emergenza destinata a 228.000 persone sfollate e alle loro comunità ospitanti, fortemente colpite dalle inondazioni nell’Africa occidentale e centrale. “Gli effetti catastrofici delle inondazioni sono destinati a estendersi ben oltre la stagione delle piogge di quest’anno, aggravando le difficoltà già affrontate dalle comunità vulnerabili”, ha dichiarato l’UNHCR. L’agenzia sta collaborando con i governi locali per fornire supporto immediato e a lungo termine alle popolazioni sfollate e alle comunità ospitanti, che sono tra le più colpite dalla crisi. Abdouraouf Gnon-Kondé, Direttore dell’Ufficio regionale dell’UNHCR per l’Africa centrale e occidentale, ha avvertito: “Senza risorse aggiuntive, i bisogni critici non potranno essere soddisfatti e questo aumenterà ulteriormente la vulnerabilità delle persone colpite”.

La crisi climatica sta aggravando le difficoltà già esistenti nelle regioni interessate, causando nuovi spostamenti di massa in aree che già ospitano molte persone sradicate a causa di conflitti e situazioni di insicurezza. Nell’Africa centrale e occidentale, 14 milioni di persone sono state forzatamente sfollate, un numero che rappresenta il doppio rispetto al 2019. Le “crisi sovrapposte”, come le definisce un comunicato ONU, evidenziano l’urgenza di sviluppare una maggiore resilienza climatica e di intensificare l’assistenza umanitaria per salvare vite.

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IL LIBANO E' IL PAESE CON PIU' RIFUGIATI AL MONDO

PAGELLAPOLITICA – IL LIBANO E’ IL PAESE CON PIU’ RIFUGIATI AL MONDO

Il 10 ottobre, durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi, il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto ha affrontato la questione della situazione in Libano, un paese che sta vivendo una crisi umanitaria senza precedenti. Lo stesso giorno, l’esercito israeliano ha colpito alcune basi della missione Onu dell’Unifil, che coinvolge anche soldati italiani. Crosetto ha espresso un «fortissimo disappunto» verso l’azione dell’esercito israeliano, che da settimane sta bombardando alcune aree del Libano nel contesto del conflitto contro le milizie di Hezbollah. Il ministro ha sottolineato che il Libano sta attraversando una crisi dopo l’altra, con un drammatico aumento dell’inflazione e altre problematiche. In particolare, Crosetto ha evidenziato il fatto che il Libano, con «due milioni di profughi», è il Paese al mondo con la più alta «percentuale di profughi sulla popolazione». I dati forniti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) confermano quanto dichiarato dal ministro. Secondo l’Unhcr, nel 2023 c’erano 31,6 milioni di rifugiati in tutto il mondo sotto il mandato di protezione dell’organizzazione, che si occupa di assistenza a persone che fuggono da guerre e persecuzioni. In termini assoluti, l’Iran ospita il maggior numero di rifugiati, con quasi 3,8 milioni, seguito da Turchia (3,5 milioni) e Germania (2,6 milioni). L’Italia si posiziona ventitreesima, con circa 300 mila rifugiati. Tuttavia, il quadro cambia se si considera la proporzione tra rifugiati e popolazione residente. In questo caso, il Libano si trova in cima alla classifica: su una popolazione di circa 5,3 milioni di abitanti, quasi 800 mila sono rifugiati sotto il mandato dell’Unhcr, pari a circa il 15% della popolazione. Ciò significa che in Libano c’è un rifugiato ogni sette abitanti, rendendo il Paese mediorientale quello con la più alta percentuale di rifugiati al mondo. Al secondo posto si trova il Montenegro (10,5%) e al terzo la Giordania (6%). L’Italia, in confronto, si trova al cinquantasettesimo posto, con lo 0,5% della popolazione composta da rifugiati. Crosetto ha affermato che il Libano ospita «due milioni» di rifugiati, un dato che può sembrare superiore rispetto a quello fornito dall’Unhcr, che conta circa 800 mila rifugiati nel 2023. Tuttavia, il numero di due milioni è raggiunto sommando diverse categorie di rifugiati. Secondo un rapporto dell’Unhcr del 9 ottobre, il governo libanese stima che nel Paese vivano circa 1,5 milioni di rifugiati siriani, di cui quasi 800 mila sotto il mandato dell’Unhcr. A questi vanno aggiunti circa 500 mila rifugiati palestinesi, che sono sotto il mandato dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi (Unrwa). Sommando questi due gruppi, si arriva a circa due milioni di rifugiati. Di conseguenza, la percentuale di rifugiati sul totale della popolazione libanese sale al 37%, ossia un rifugiato ogni tre abitanti. Anche la Giordania ha una significativa presenza di rifugiati palestinesi, circa 2,4 milioni, sempre sotto il mandato dell’Unrwa. Se si considera anche questo gruppo, la percentuale di rifugiati rispetto alla popolazione giordana supera il 26%. L’Unhcr ha descritto il Libano come un Paese in difficoltà, colpito da un declino socio-economico causato dal crollo del settore bancario, dalla svalutazione della moneta locale, dalla mancanza di un sistema di sicurezza sociale affidabile e da una crescente inflazione. La situazione dei rifugiati è particolarmente critica, con poche possibilità di ritorni sicuri o integrazione locale. Dopo gli attacchi dell’esercito israeliano, la crisi umanitaria è ulteriormente peggiorata. Il governo libanese stima che, a seguito dei bombardamenti recenti, circa un milione di persone siano state sfollate.

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ADNKRONOS – OXFAM: L’1% DELLA POPOLAZIONE MONDIALE PIU’ RICCA POSSIEDE PIU’ RICCHEZZA DEL 95%

Uno studio di Oxfam Intermón ha rivelato che la ricchezza globale è sempre più concentrata nelle mani di un’esigua minoranza. L’1% della popolazione mondiale più ricca possiede attualmente più ricchezza del restante 95%. Franc Cortada, direttore della ONG, ha spiegato che gli “ultra-ricchi” stanno modellando le regole economiche a loro favore, sfruttando la loro posizione di potere. Durante la presentazione del rapporto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, Cortada ha evidenziato come i governi stiano progressivamente perdendo la capacità di contrastare il crescente potere economico delle élite, parlando di un’”era dell’oligarchia globale”. Il rapporto sottolinea che più di un terzo delle 50 aziende più grandi al mondo ha un miliardario come amministratore delegato o principale azionista. Inoltre, circa 3.000 famiglie, la maggior parte delle quali risiede in Nord America, Europa e Australia, detengono il 13% del prodotto interno lordo (PIL) mondiale. Questa cifra è in aumento rispetto al 1987, quando queste famiglie possedevano il 3% del PIL globale. Dall’altro lato, quasi la metà della popolazione mondiale vive con meno di 6,85 dollari al giorno, un reddito che la colloca al di sotto della soglia di povertà. Secondo il rapporto, questa crescente concentrazione di ricchezza è il risultato di politiche economiche che, nel corso degli ultimi decenni, hanno favorito le classi più agiate. In particolare, le misure neoliberiste adottate tra gli anni ’80 e ’90 hanno incentivato la crescita economica privata, trascurando il benessere sociale e alimentando le disuguaglianze. “Gli ultra-ricchi e le grandi aziende che dominano il mercato stanno plasmando le regole del gioco a proprio vantaggio, a scapito della maggior parte della popolazione”, ha dichiarato Cortada. Ha poi aggiunto che, sebbene si parli spesso di rivalità tra grandi potenze come il principale fattore di destabilizzazione del multilateralismo, in realtà è l’estrema disuguaglianza a svolgere un ruolo centrale. Inoltre, Oxfam accusa i più ricchi e le grandi aziende di usare la loro influenza per frenare le iniziative globali volte a risolvere problemi planetari. Tra questi, la lotta contro l’evasione fiscale, l’accesso universale ai vaccini contro il Covid-19 e la cancellazione del debito dei paesi in via di sviluppo. Il rapporto fa l’esempio del mercato delle sementi, dove due sole aziende controllano il 40% del mercato globale, mentre tre giganti della tecnologia dominano il 75% delle entrate pubblicitarie. In ambito economico, il 10% delle maggiori aziende statunitensi genera il 95% dei profitti aziendali dopo il pagamento delle tasse. L’iperconcentrazione di ricchezza e potere evidenziata nel rapporto di Oxfam aggrava le disuguaglianze già esistenti tra persone e regioni del mondo. Il cosiddetto Sud globale, che include paesi come India e Cina, detiene solo il 31% della ricchezza mondiale, nonostante vi risieda il 79% della popolazione mondiale. Un altro aspetto critico riguarda la proprietà intellettuale, come dimostrato durante la pandemia di coronavirus, quando le aziende farmaceutiche hanno mantenuto il controllo sui diritti dei vaccini. Questa dinamica ha contribuito a una sorta di “apartheid dei vaccini”, in cui i paesi più ricchi hanno accumulato la maggior parte delle dosi disponibili. Anche l’impatto ambientale del sistema economico globale è influenzato dalle élite. Oxfam ha rilevato che l’1% più ricco della popolazione mondiale genera una quantità di emissioni di anidride carbonica maggiore rispetto ai due terzi più poveri del pianeta. Questo ulteriore squilibrio mette in evidenza come lo sviluppo economico sia legato anche a gravi conseguenze climatiche. Cortada ha concluso sostenendo che solo un multilateralismo basato sull’equità e sulla giustizia potrà contrastare l’aumento del potere delle oligarchie globali. Alcuni leader mondiali sono già consapevoli di questo problema e stanno adottando misure per combattere la disuguaglianza, ma è necessario un impegno più deciso e diffuso. Tra le proposte avanzate da Oxfam vi sono la cancellazione del debito dei paesi più poveri e l’adozione di un nuovo sistema fiscale per combattere l’evasione e l’elusione fiscale a livello globale.

FARODIROMA – 730 MILIONI DI PERSONE VIVONO IN CONDIZIONI DI INSICUREZZA ALIMENTARE

Il rapporto SOFI (State of Food Insecurity) pubblicato da ONU, FAO, IFAD, UNICEF e PAM rivela che 733 milioni di persone vivono in condizioni di insicurezza alimentare, un numero che non è diminuito per il terzo anno consecutivo. Si tratta di un aumento del 36% rispetto a dieci anni fa, quando le Nazioni Unite avevano fissato l’obiettivo “fame zero” tra i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile per il 2030. Rispetto al periodo pre-Covid, ci sono 152 milioni di persone in più che soffrono la fame. Attualmente, una persona su undici nel mondo non ha abbastanza da mangiare, con la situazione particolarmente grave in Africa, dove una persona su cinque è affamata. L’Asia è la regione con il maggior numero di persone denutrite, con 384,5 milioni di individui, seguita dall’Africa con 298,4 milioni, dall’America Latina con 41 milioni e dall’Oceania con 3,3 milioni. Oltre ai 733 milioni in condizioni estreme, ci sono 2,3 miliardi di persone in situazioni di insicurezza alimentare moderata o grave. Molti di questi individui vivono nelle aree rurali dei Paesi in via di sviluppo, dove paradossalmente i piccoli produttori agricoli, che forniscono cibo al resto del mondo, non riescono a nutrire nemmeno se stessi e le loro famiglie. Il rapporto sottolinea come il divario tra il Nord ricco e il Sud povero del mondo persista e si ampli, con risorse globali concentrate nel mantenere e accrescere queste disuguaglianze. Nonostante le enormi somme spese per gli armamenti – circa 2344 miliardi di dollari all’anno – solo una piccola parte viene destinata all’emergenza alimentare. Gli investimenti per combattere la fame, inclusi nei programmi di aiuti allo sviluppo, ammontano a soli 76 miliardi di dollari all’anno, tra il 2017 e il 2021, e solo una piccola parte di questi fondi è dedicata a contrastare le cause profonde della fame. La Banca Mondiale, il Fondo Europeo di Sviluppo e il FMI stimano che sarebbero necessari 10 miliardi di dollari aggiuntivi all’anno per sostenere i programmi agricoli in Africa subsahariana, con un costo totale di 28-36 miliardi di dollari all’anno per i prossimi cinque anni. Queste cifre, se confrontate con il PIL dell’area, pari a duemila miliardi di dollari nel 2022, e con gli investimenti totali lordi di 470 miliardi di dollari, sembrano gestibili. Tuttavia, secondo la FAO, le risorse necessarie per combattere fame e malnutrizione sono di diverse migliaia di miliardi di dollari. Anche il semplice riutilizzo dei finanziamenti già esistenti potrebbe fare una grande differenza, specialmente se impiegati per aiutare i contadini dei Paesi poveri a difendersi dal cambiamento climatico, un problema a cui sono particolarmente vulnerabili. Il rapporto suggerisce l’adozione di sistemi di produzione resistenti al clima e una produzione agro-ecologica diversificata e localizzata, anziché affidarsi a catene alimentari industriali globali. Inoltre, sottolinea la necessità di programmi di protezione sociale che garantiscano il diritto al cibo per i più poveri. La situazione è resa ancora più grave dal fatto che la difficoltà a procurarsi cibo riguarda 119 nazioni, oltre il 50% della comunità internazionale. Le cause di questa crisi non sono solo climatiche, ma includono anche guerre, crisi economiche improvvise e speculazione finanziaria sui prezzi degli alimenti. Anche in passato, quando il tema ambientale non era così pressante, la denutrizione era diffusa in oltre il 60% del pianeta, specialmente in Asia e Africa, a causa di un modello di sviluppo che riservava le risorse ai ricchi e il debito ai poveri. Un dato simbolico e paradossale, ma significativo, è che una mucca in Francia o in Texas consuma più proteine quotidianamente di una persona nell’Africa subsahariana. Inoltre, la spesa per diete e chirurgia estetica in Occidente supera di gran lunga quella per nutrire le popolazioni più povere del Sud del mondo. L’aumento della concentrazione della ricchezza in poche mani e l’espansione della povertà a livello globale evidenziano il fallimento di un sistema economico liberista che si basa sull’accumulazione speculativa, la deindustrializzazione e una economia drogata. Questo sistema non solo non risolve i problemi esistenti, ma ne crea di nuovi, rendendo sempre più difficile trovare soluzioni. Oggi, il mondo è contemporaneamente più ricco e più affamato. La povertà crescente nei Paesi periferici si è estesa anche a quelli centrali, e l’idea di risolvere i problemi attraverso guerre e sanzioni si è dimostrata inefficace, generando solo ulteriore impoverimento. La crisi del capitalismo ultraliberista ha portato il sistema al capolinea, con una situazione che sta diventando insostenibile a livello globale.

AGI – QUASI 50 MILIONI LE PERSONE IN CONDIZIONI DI SCHIAVITU’ NEL MONDO: 12 MILIONI SONO MINORI

Nel mondo, quasi 50 milioni di persone vivono in condizioni di schiavitù moderna, di cui oltre 12 milioni sono minori. Questi dati, raccolti da Save the Children, evidenziano diverse forme di sfruttamento, tra cui lavoro forzato e matrimoni forzati, con un trend in crescita. Tra i minori, 3,3 milioni sono coinvolti nel lavoro forzato, con 1,69 milioni sfruttati sessualmente e 1,31 milioni impiegati in attività come lavoro domestico, agricoltura, manifattura, edilizia, accattonaggio o attività illecite. Inoltre, 320 mila minori sono sottoposti a lavoro forzato da parte degli Stati, come detenuti, dissidenti politici o appartenenti a minoranze perseguitate. I matrimoni forzati coinvolgono 9 milioni di minori. Il rapporto “Piccoli Schiavi Invisibili” di Save the Children, pubblicato in vista della Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani del 30 luglio, mette in luce la gravità del fenomeno e la necessità di proteggere i minori. La maggior parte dei matrimoni forzati si concentra in Asia Orientale, con 14,2 milioni di casi nel 2021, seguita dall’Africa con 3,2 milioni e dall’Europa e Asia Centrale con 2,3 milioni. Spesso, questi matrimoni sono organizzati dai genitori (73%) o da parenti stretti (16%) e si collegano a situazioni di forte vulnerabilità come servitù domestica o sfruttamento sessuale. Nel 2020, sono state identificate 53.800 vittime di tratta e sfruttamento, con il 35% di minori (18% femmine e 17% maschi). Dal 2011 al 2021, poco più di un quarto delle vittime identificate erano minori, con la fascia di età più colpita tra i 9 e i 17 anni (21,8%). L’identificazione e il supporto delle vittime di tratta sono complicati a causa della marginalizzazione e dell’isolamento imposto dalle reti criminali. Le vittime, spesso invisibili, sono ancora più difficili da aiutare se si tratta di minori soli e indifesi, soggetti a violenze fisiche o psicologiche e costretti a ripagare debiti sotto minacce e coercizioni. Il fenomeno della tratta e dello sfruttamento non risparmia l’Europa e nemmeno l’Italia. Nel periodo 2017-2021, in Europa sono state registrate circa 29 mila vittime di tratta nel database del Counter Trafficking Data Collaborative. In Europa, più della metà dei casi riguarda lo sfruttamento lavorativo (53%) e il 43% lo sfruttamento sessuale, mentre il restante 4% coinvolge altre forme di sfruttamento, come accattonaggio o attività illecite. La maggior parte delle vittime sono adulti (84%), con una prevalenza di donne (66%). Tuttavia, il 16% delle vittime è rappresentato da minori. Tra i più piccoli, fino agli 11 anni, le vittime sono equamente suddivise tra maschi e femmine, mentre nelle altre fasce d’età prevalgono nettamente le femmine, con un picco del 77% tra i 15 e i 17 anni. I minori vittime di tratta sono maggiormente soggetti ad abusi psicologici, fisici e sessuali rispetto agli adulti. Il 69% dei minori subisce controllo psicologico, il 52% è minacciato e ingannato con false promesse, mentre il 46% è soggetto a controllo fisico. Anche in Italia il fenomeno è preoccupante. Sebbene i flussi migratori dalla Nigeria siano diminuiti, i cittadini nigeriani rimangono i più numerosi tra le nuove valutazioni di vittime di tratta (25,2%), seguiti da ivoriani (13,6%) e marocchini (11,2%). I dati evidenziano che le forme di controllo esercitate dai trafficanti sui bambini e adolescenti spesso si sovrappongono, creando una rete intricata dalla quale è estremamente difficile liberarsi. In Italia, dal primo gennaio al 31 maggio 2024, il Numero verde nazionale per l’aiuto alle vittime di tratta e grave sfruttamento ha registrato 1.150 nuove valutazioni di potenziali vittime.

ADNKRONOS – ONU: LA POPOLAZIONE MONDIALE RAGGIUNGERA’ 10,3 MILIARDI DI PERSONE ENTRO META’ 2080

La popolazione mondiale raggiungerà il suo picco massimo entro la metà del 2080, stimato intorno ai 10,3 miliardi di persone, rispetto agli attuali 8,2 miliardi. Successivamente, si prevede una graduale diminuzione fino a raggiungere i 10,2 miliardi entro il 2100, una cifra inferiore del 6% rispetto alle stime di un decennio fa. Questi dati provengono dall’ultimo rapporto biennale delle Nazioni Unite, “World Population Prospects”. Nel 2022, l’ONU aveva stimato che la popolazione mondiale avrebbe raggiunto il picco di 10,4 miliardi entro il 2080. Il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari economici e sociali, Li Junhua, ha dichiarato: “In alcuni paesi, il tasso di natalità è ora persino più basso di quanto previsto in precedenza e stiamo anche assistendo a cali leggermente più rapidi in alcune regioni ad alta fertilità. Il picco basso così precoce è un segnale di speranza. Ciò potrebbe significare una riduzione delle pressioni ambientali dovute agli impatti umani, grazie al consumo aggregato inferiore”. Attualmente, a livello globale, le donne hanno in media un figlio in meno rispetto al 1990. In molti Paesi, il numero medio di figli è sceso sotto 2,1, che è il livello richiesto per mantenere una popolazione costante senza migrazione, noto anche come “tasso di sostituzione”. Tra i Paesi con i tassi di fertilità più bassi ci sono Cina, Corea del Sud, Spagna e Italia, definiti dall’ONU come “ultra-bassi”. Eurostat ha riportato che la ripresa delle migrazioni e l’asilo concesso ai rifugiati ucraini hanno contribuito all’incremento della popolazione europea. Nel lungo periodo, la popolazione dell’UE è cresciuta da 354,5 milioni nel 1960 a 449,2 milioni a gennaio 2024, con un aumento di 94,7 milioni di persone. La popolazione nei singoli paesi dell’UE varia da 0,6 milioni a Malta a 83,4 milioni in Germania. Germania, Francia e Italia insieme comprendono quasi la metà (47%) della popolazione totale dell’UE. Mentre la popolazione complessiva dell’UE è aumentata nel 2024, non tutti gli Stati membri hanno registrato aumenti demografici significativi. Sette paesi hanno registrato una diminuzione della popolazione tra gennaio 2023 e gennaio 2024, con le maggiori diminuzioni in Polonia (-132.800 persone), Grecia (-16.800) e Ungheria (-15.100). Gli aumenti maggiori sono stati osservati in Spagna (+525.100), Germania (+330.000) e Francia (+229.000). L’aspettativa di vita è tornata a crescere nel 2022, raggiungendo 83,3 anni per le donne e 77,9 anni per gli uomini. Questi livelli superano quelli del 2020, ma sono ancora inferiori rispetto al 2019. Durante il Covid-19, il divario di genere, che si era ridotto nei due decenni precedenti, è aumentato. Tuttavia, nel 2022, il divario si è ridotto significativamente a 5,4 anni. Tra i paesi dell’UE, la Spagna ha registrato l’aspettativa di vita media più alta alla nascita nel 2022 con 83,2 anni, mentre la Bulgaria ha registrato la più bassa con 74,2 anni. Le donne hanno un’aspettativa di vita superiore rispetto agli uomini in tutti i paesi dell’UE, con i divari di genere più ampi nei paesi baltici: Lettonia (10 anni), Lituania ed Estonia (8,7 anni ciascuna). I divari più stretti si trovano nei Paesi Bassi (2,9 anni), in Irlanda (3,3 anni) e in Svezia (3,4 anni). Nel 2022, ci sono stati 5,2 milioni di morti nell’UE. Rispetto al 2019, il numero di morti nel 2022 è stato superiore di 505.000, con un aumento del 10,9%. La mortalità è stata minore nel 2022 rispetto al 2021 nella maggior parte dei paesi, inclusi tutti i paesi dell’UE orientali e baltici, oltre a Grecia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Portogallo. I maggiori cali della mortalità tra il 2021 e il 2022 sono stati registrati in Bulgaria, Slovacchia e Romania, mentre il maggiore aumento è stato in Finlandia. I tassi di mortalità più alti nel 2022 sono stati a Cipro (24,3%), Malta (18,4%) e Finlandia (17,0%). Al contrario, dieci paesi dell’UE hanno registrato un numero di morti nel 2022 inferiore al 10% rispetto alla media del periodo 2016-2019, con i tassi di mortalità più bassi registrati in Svezia (4,1%) e Romania (4,5%).

MONEY – E’ IN COSTRUZIONE UN TUNNEL SOTTOMARINO CHE COLLEGHERA’ LA GERMANIA CON LA SCANDINAVIA: COSTERA’ 6 MILIARDI

Un nuovo tunnel sottomarino, che diventerà il più lungo del mondo, è in costruzione nel cuore dell’Europa e collegherà la Germania con la Scandinavia. Questo ambizioso progetto, chiamato Fehmarn Belt, sarà inaugurato nel 2029 e mira a decongestionare il traffico dei traghetti che attraversano il Mar Baltico dalla Germania settentrionale alla Danimarca meridionale. Il tunnel ospiterà un’autostrada a quattro corsie e binari ferroviari, riducendo notevolmente i tempi di percorrenza. I lavori dovrebbero concludersi entro il 2029, con un costo stimato che è salito a 6,2 miliardi di sterline dai 4,6 miliardi iniziali, dopo l’accordo tra Danimarca e Germania. Il finanziamento sarà a carico della Danimarca, che recupererà i costi attraverso un pedaggio. Il tunnel Fehmarn Belt, lungo 18,2 chilometri, collegherà Roedby in Danimarca con Puttgarten in Germania. La prima sezione di 217 metri è stata già completata e sommersa sul lato danese. Una volta operativo, il tunnel permetterà di percorrere il tragitto in soli 10 minuti in auto e 7 minuti in treno, sostituendo il servizio di traghetti gestito da Scandlines. La costruzione prevede uno scavo a 16 metri di profondità per inserire strutture larghe 60 metri che accoglieranno quattro corsie per il traffico veicolare e due binari ferroviari. Il tunnel sarà composto da 89 moduli di cemento armato, ciascuno lungo 217 metri e pesante circa 73.000 tonnellate. Le auto potranno viaggiare a una velocità massima di 110 chilometri orari, mentre i treni potranno raggiungere i 200 chilometri orari. Il materiale scavato dal fondo del mare sarà recuperato e utilizzato per ampliare la terraferma, creando una nuova superficie di 3 km² che estenderà le aree naturali costiere dell’isola di Lolland e in parte dell’isola di Fehmarn. Oltre a ridurre i tempi di percorrenza, il nuovo tunnel sarà fondamentale per il trasporto merci lungo il corridoio scandinavo-mediterraneo tra il Nord Europa e l’Italia, con 68 treni merci che viaggeranno ogni giorno, oltre a ulteriori 30 treni merci dal porto di Travemünde verso l’Italia.

ANSA – WWF: PER IL 2024 SONO TERMINATE LE RISORSE ITTICHE DEL MEDITERRANEO

Il Wwf ha denunciato che per il 2024 sono terminate le risorse ittiche del Mediterraneo, costringendo l’Europa a ricorrere alle importazioni. Questo accade in vista del “Fish Dependence Day”, il giorno in cui l’Europa esaurisce virtualmente la produzione annua interna di pesce, molluschi e crostacei. La ricorrenza coinciderà con la 36esima edizione del Comitato per la Pesca della Fao a Roma, dall’8 al 12 luglio. Il Wwf ha spiegato che con il 58% degli stock ittici sovrapescati, il Mediterraneo è il secondo mare più sovrasfruttato al mondo, in confronto al 37,7% a livello globale. Queste condizioni sono aggravate dal cambiamento climatico. Se nei primi sei mesi si fossero consumate solo le risorse dei mari europei, da luglio alla fine dell’anno queste non sarebbero più disponibili e l’Europa dovrebbe importare per soddisfare la crescente domanda dei consumatori. Il consumo europeo di pesce è troppo alto: ogni cittadino consuma in media 24 chili di pesce all’anno, con gli italiani che superano la media con 31,21 chili. Questa domanda crescente, soprattutto in estate, alimenta una pesca eccessiva. Le specie più colpite dal sovrasfruttamento sono nasello, sardina, gamberi viola e rosa, e triglia di fango. La situazione è ulteriormente aggravata dalla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata, che mette a rischio gli ecosistemi marini e le economie locali. Il Wwf sottolinea l’importanza di comportamenti di consumo responsabili. Oltre alle azioni umane, la crisi climatica minaccia la metà della produzione mondiale di pesce. Il riscaldamento degli oceani potrebbe ridurre gli stock fino al 40% entro il 2100. Nel Mediterraneo, sta causando la tropicalizzazione con quasi 126 specie aliene presenti, riducendo le specie autoctone fino al 40% in alcune aree a causa di competizione o predazione. Altri effetti includono la proliferazione di meduse e la diminuzione della capacità di immagazzinamento della CO2 a causa della riduzione delle praterie di posidonia.

ANSA – UNICEF: PIU’ DI 1 BAMBINO SU 4 NEL MONDO VIVE IN CONDIZIONI DI “GRAVE POVERTA’ ALIMENTARE”

Secondo l’Unicef, più di un bambino su quattro sotto i cinque anni vive in condizioni di “grave povertà alimentare”. Questo significa che oltre 180 milioni di bambini nel mondo rischiano gravi conseguenze a causa della mancanza di una dieta nutriente e diversificata. Catherine Russell, responsabile del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, ha dichiarato che i “bambini che consumano solo due gruppi di alimenti al giorno, ad esempio riso e un po’ di latte, hanno il 50% in più di probabilità di soffrire di forme gravi di malnutrizione”. Nel mondo, 181 milioni di bambini sotto i cinque anni vivono in grave povertà alimentare, con il 65% di questi concentrati in soli 20 paesi. Circa 64 milioni di bambini colpiti si trovano in Asia del Sud e 59 milioni in Africa Sub-Sahariana. Nella Striscia di Gaza, nove bambini su dieci sopravvivono con due o meno gruppi di alimenti al giorno. Questo emerge dal rapporto dell’Unicef “Child Food Poverty: Nutrition Deprivation in Early Childhood”, che analizza le cause e le conseguenze della privazione alimentare tra i più piccoli in circa 100 paesi. Il rapporto rivela per la prima volta che milioni di bambini sotto i cinque anni non possono accedere a una dieta nutriente e diversificata, necessaria per una crescita e uno sviluppo ottimali. I bambini che consumano al massimo due degli otto gruppi alimentari stabiliti sono considerati in grave povertà alimentare. Quattro bambini su cinque in questa situazione sono nutriti solo con latte materno o latte e un alimento di base amidaceo come riso, mais o grano. Meno del 10% di questi bambini consuma frutta e verdura, e meno del 5% si nutre di alimenti ricchi di sostanze nutritive come uova, pesce, pollame o carne. Catherine Russell ha affermato che “i bambini che vivono in grave povertà alimentare sono bambini in bilico. Questa situazione, che riguarda milioni di bambini, può avere un impatto negativo irreversibile sulla loro sopravvivenza, crescita e sviluppo cerebrale”.

AMNESTY – PENA DI MORTE NEL MONDO: NEL 2023 SONO STATE MESSE A MORTE 1.153 PERSONE

Nel 2023 la pena di morte nel mondo ha raggiunto il numero più alto in quasi un decennio, con un forte aumento in Medio Oriente, secondo i nuovi dati di Amnesty International. Le 1.153 persone ufficialmente messe a morte sono il record dal 2015, con un aumento del 30% rispetto al 2022. Ma il numero di paesi che hanno effettuato esecuzioni è il più basso di sempre: 16. Iran, Arabia Saudita, Somalia, Usa e Cina sono i paesi con il maggior numero di esecuzioni. Secondo il rapporto di Amnesty International, nel 2023 il numero di esecuzioni capitali nel mondo ha raggiunto il livello più alto dal 2015, con un forte aumento in Iran e in tutto il Medio Oriente. Amnesty ha registrato un totale di 1.153 esecuzioni ufficiali, con un incremento del 30% rispetto al 2022 e il dato più alto dal 2015, quando si contavano 1.634 esecuzioni. Tuttavia, questa cifra non include migliaia di condanne a morte presumibilmente eseguite in Cina, dove i dati rimangono classificati come segreto di Stato. L’impennata delle esecuzioni registrate è stata determinata principalmente dall’Iran, dove le autorità hanno giustiziato almeno 853 persone nel 2023, rispetto alle 576 dell’anno precedente. Tra le vittime ci sono 24 donne e 5 persone che erano minorenni al momento del reato. Amnesty ha identificato Cina, Iran, Arabia Saudita, Somalia e Stati Uniti come i cinque paesi con il maggior numero di esecuzioni nel 2023. Il rapporto cita l’introduzione di proposte di legge per eseguire le condanne tramite plotone d’esecuzione in Idaho e Tennessee, e l’uso da parte dell’Alabama del gas di azoto come nuovo metodo di esecuzione non testato, avvenuto a gennaio. Nonostante questi dati allarmanti, Amnesty ha evidenziato alcuni progressi, poiché il numero di paesi che hanno effettuato esecuzioni è sceso a 16, il più basso mai registrato dall’inizio del monitoraggio da parte dell’organizzazione per i diritti umani.

REPUBBLICA – IN EUROPA 1 BAMBINO SU 5 E’ VITTIMA DI VIOLENZA SESSUALE

Un bambino su cinque in Europa è vittima di abusi sessuali. Un dato che emerge da un recente report dell’Internet Watch Foundation (IWF), che ha registrato nel 2023 il picco di immagini di abusi sessuali su minori diffuse online. La situazione è resa ancora più drammatica dal fatto che la maggior parte degli abusi (circa l’80%) viene perpetrata da persone conosciute dalla vittima, spesso all’interno del nucleo familiare. In vista della Giornata Nazionale per la lotta alla pedofilia e alla pedopornografia (5 maggio), la Fondazione S.O.S. Telefono Azzurro ha organizzato un importante evento in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, dal titolo “La dignità dei bambini nel mondo digitale”. L’incontro ha avuto l’obiettivo di sensibilizzare sul tema dello sfruttamento sessuale online dei minori, analizzando il panorama internazionale e approfondendo il legame tra abusi e ambiente digitale. Numerosi gli interventi di rilievo durante la giornata. Tra questi, spiccano le parole di Ernesto Caffo, Presidente del Telefono Azzurro, che ha sottolineato come “con l’avvento della tecnologia digitale, gli abusi hanno assunto nuove forme e si sono diffusi su scala globale”. Secondo Caffo, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale aumenta i rischi online, rendendo necessario un intervento con strumenti innovativi e una maggiore responsabilizzazione. Guido Scorza, Componente del Collegio del Garante per la protezione dei dati personali, ha ribadito la necessità di educare le persone all’uso consapevole degli algoritmi: “Troppo spesso investiamo negli algoritmi affinché conoscano le persone ma non investiamo per educare le persone a conoscere ed usare gli algoritmi dell’intelligenza artificiale”. Carla Garlatti, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha evidenziato come i reati di pedopornografia rappresentino una forma di abuso sessuale con gravi traumi per le vittime, che ne compromette la crescita. Garlatti ha sottolineato l’urgenza di intervenire con nuovi strumenti, ampliando le legislazioni e responsabilizzando gli adulti, attraverso l’ascolto e il coinvolgimento attivo dei giovani. Il Cardinale Sean O’Malley ha posto l’accento sul potere degli algoritmi, che presenta sia opportunità che sfide, richiedendo un equilibrio tra il progresso tecnologico e i valori umani. O’Malley ha auspicato che l’imminente G7, in programma a metà giugno in Puglia, possa rappresentare un’occasione per avanzare proposte concrete su questo tema. L’intervento del Cardinale O’Malley ha ricordato la partecipazione del Santo Padre al G7, dove affronterà il tema dell’intelligenza artificiale e le questioni cruciali sulla responsabilità ad essa associate. “Dobbiamo contribuire attivamente alla conversazione globale sull’uso responsabile dell’AI. La tecnologia dovrebbe servire a migliorare la vita umana, non il contrario”, ha affermato il Cardinale. Durante la giornata è emersa la necessità di istituire un osservatorio globale sull’uso dell’intelligenza artificiale, al fine di monitorare e regolamentare il suo utilizzo in modo responsabile ed etico. È fondamentale il coinvolgimento di istituzioni, associazioni e aziende per l’adozione di misure concrete contro la diffusione della pedopornografia e la tutela dei minori online. Tra le misure proposte, la “age verification”, un processo per confermare l’età dei visitatori del web e bloccare l’accesso a siti e servizi non adatti ai minori. “L’algoritmo quanto più lo conosciamo tanto più è utile, tanto meno lo conosciamo tanto più è pericoloso”, ha affermato Guido Scorza. “Troppo spesso utilizziamo il diritto alla privacy come alibi ma dobbiamo ricordare che in gioco c’è la sicurezza dei bambini. La privacy non vale più della tutela dei bambini”. Padre Hans Zollner, direttore dell’Ufficio per la protezione dei minori del Vicariato di Roma, ha evidenziato i rischi di un’eccessiva dipendenza dai dispositivi elettronici e dai social network, che può causare mancanza di empatia, difficoltà nella socialità e nella capacità di ragionamento. “Oggi di fianco alla legislazione dobbiamo rifletterci e interrogarci su cosa e come vogliamo essere come esseri umani”, ha affermato Zollner.

ANSA – IDMC: 75,9 MILIONI DI SFOLLATI NEL 2023

Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio sugli Sfollati Interni (IDMC), i conflitti in Sudan, Striscia di Gaza e Repubblica Democratica del Congo hanno spinto il numero di sfollati interni al livello record di 75,9 milioni a fine 2023. Questo numero rappresenta un aumento del 50% negli ultimi cinque anni a livello globale, rispetto ai 71,1 milioni della fine del 2022. A differenza dei rifugiati che fuggono da un paese per stabilirsi altrove, gli sfollati interni rimangono nel loro paese ma sono costretti a spostarsi. Le principali cause di questi sfollamenti forzati sono la violenza e i conflitti (68,3 milioni), mentre i disastri hanno costretto 7,7 milioni di persone a fuggire e stabilirsi altrove. Negli ultimi cinque anni, il numero di persone sfollate a causa di violenze e conflitti è aumentato di 22,6 milioni, con i maggiori incrementi registrati nel 2022 e nel 2023. Il Sudan detiene il record di sfollati interni in un singolo Paese dal 2008, con 9,1 milioni di persone costrette a fuggire dalle proprie case. L’IDMC sottolinea che quasi la metà di tutti gli sfollati vive nell’Africa subsahariana. Questo dato evidenzia la gravità della situazione umanitaria in molte regioni del continente, dove conflitti prolungati e instabilità politica costringono milioni di persone a lasciare le proprie case.

SCENARIECONOMICI – COREA DEL SUD, LITUANIA E UNGHERIA SONO I PAESI COL MAGGIOR NUMERO DI SUICIDI (PER ABITANTI) AL MONDO

Corea del Sud e Lituania occupano le prime posizioni per il numero di suicidi per 100.000 abitanti, insieme all’Ungheria. Al contrario, paesi come il Perù e la Grecia hanno tassi di suicidio inferiori. Tuttavia, l’Italia non ha fornito dati su questo tema, evidenziando una problematica sottovalutata legata alla salute mentale. Il mese di maggio è dedicato alla Consapevolezza della Salute Mentale negli Stati Uniti. In questo periodo, l’attenzione si concentra sul combattere lo stigma, ampliare il sostegno, promuovere l’educazione pubblica e sostenere politiche a favore del benessere delle persone e delle famiglie colpite dalla malattia mentale, come evidenziato dalla National Alliance on Mental Illness. Il suicidio è una parte significativa di questa discussione. Secondo i dati dell’OCSE, i tassi di suicidio variano significativamente in tutto il mondo. Ad esempio, negli Stati Uniti nel 2021 si sono registrati in media 23 suicidi per 100.000 uomini e quasi sei per 100.000 donne. Tuttavia, in alcuni Paesi come la Corea del Sud, la Lituania e l’Ungheria, i tassi sono ancora più elevati. In generale, si osserva che i tassi di suicidio tra gli uomini superano quelli delle donne in tutti i 15 Paesi presi in considerazione. Nel 2022, la Corea del Sud e la Lituania hanno registrato i tassi più alti tra gli uomini, rispettivamente con 34,9 e 33,1 casi per 100.000 abitanti. Per quanto riguarda le donne, la Corea del Sud e il Giappone hanno riportato i tassi più alti tra i Paesi analizzati, con 14,9 e 9,8 rispettivamente. È importante notare che l’Italia non ha fornito dati sull’argomento all’OCSE, il che solleva interrogativi sulla trasparenza delle informazioni relative ai suicidi nel paese. Trovare dati affidabili sui suicidi in Italia può essere un compito difficile, il che solleva sospetti su una possibile sottovalutazione della problematica.

SCENARIECONOMICI – OLTRE 27 MILIONI DI PERSONE NEL MONDO SONO SOTTOPOSTE A LAVORO FORZATO

Il lavoro forzato rappresenta un problema grave e diffuso in tutto il mondo, con 27,6 milioni di persone costrette a vivere in queste condizioni nel 2021, secondo un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO). Questo dato corrisponde a circa 3,5 persone ogni 1.000 abitanti, con un aumento dell’11% rispetto al 2016, quando il numero era di 24,9 milioni. La maggior parte delle persone coinvolte nel lavoro forzato è sottoposta a sfruttamento nel settore privato (23,6 milioni nel 2021), piuttosto che dallo Stato (3,9 milioni nel 2021). L’Asia e il Pacifico registrano il maggior numero di casi, con 15,1 milioni di persone coinvolte, seguita dall’Europa e dall’Asia Centrale con 4,1 milioni. Le Americhe, l’Africa e gli Stati Arabi seguono con numeri inferiori. In termini di prevalenza, gli Stati Arabi presentano la più alta incidenza di lavoro forzato (5,3 persone ogni 1.000 abitanti), seguiti da Europa e Asia Centrale (4,4 persone ogni 1.000 abitanti), Asia e Pacifico (3,5 persone ogni 1.000 abitanti), Americhe (3,5 persone ogni 1.000 abitanti) e Africa (2,9 persone ogni 1.000 abitanti). Secondo il rapporto dell’ILO, il lavoro forzato genera profitti illegali stimati in 236 miliardi di dollari nel 2024, con uno sfruttatore medio che guadagna circa 9.995 dollari per vittima. Questi profitti rappresentano il salario che dovrebbe spettare ai lavoratori, ma che viene trattenuto dai loro sfruttatori a causa di pratiche coercitive. Va notato che questa stima non include ulteriori profitti illegali derivanti da commissioni di reclutamento o evasione fiscale. Il lavoro forzato è definito come “lavoro involontario e sotto pena o minaccia di coercizione”. La sua diffusione evidenzia una grave violazione dei diritti umani e richiede azioni concrete da parte delle autorità nazionali e internazionali per contrastarlo e proteggere le persone coinvolte da questa forma di sfruttamento.

L’INDIPENDENTE – LA MORTALITA’ INFANTILE E’ DIMINUITA IN TUTTO IL MONDO

Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la mortalità infantile nel mondo è diminuita del 4,2% nel 2023, scendendo a 4,2 morti per mille nati vivi. Si tratta del livello più basso mai registrato, che rappresenta un ulteriore passo avanti verso l’obiettivo di raggiungere entro il 2030 un tasso di mortalità infantile inferiore a 2 morti per mille nati vivi. La diminuzione della mortalità infantile è stata particolarmente significativa in Africa, dove il tasso è sceso dal 6,6% nel 2022 al 6,2% nel 2023. In Asia, il tasso è sceso dal 2,7% al 2,6%, mentre in Europa è rimasto stabile allo 0,4%. I progressi nella riduzione della mortalità infantile sono il risultato di una serie di fattori, tra cui i miglioramenti nella salute materna e infantile, l’accesso a cure mediche di base e la diffusione di vaccini. Tuttavia, nonostante i progressi compiuti, la mortalità infantile rimane un problema serio in molti paesi del mondo. Nel 2023, circa 6,6 milioni di bambini sono morti prima di raggiungere i cinque anni di età. Le principali cause di morte infantile sono la diarrea, le infezioni respiratorie acute e il morbillo. Queste malattie sono prevenibili e curabili, ma spesso colpiscono i bambini che vivono in condizioni di povertà e che non hanno accesso alle cure mediche necessarie. Per ridurre ulteriormente la mortalità infantile, è necessario continuare a investire nella salute materna e infantile, nell’accesso a cure mediche di base e nella diffusione di vaccini.

EUROPA

SCENARIECONOMICI – IN GERMANIA 1 TEDESCO SU 20 GUIDA SOTTO EFFETTO DI DROGA (DOPO LA LIBERALIZZAZIONE DELLA CANNABIS)

I risultati della liberalizzazione della cannabis in Germania mostrano un aspetto preoccupante: circa un tedesco su venti guida sotto l’effetto di questa sostanza. Le analisi effettuate dalla polizia di Berlino hanno evidenziato che, su 812 automobilisti controllati, 47 avevano livelli di THC nel sangue superiori ai limiti consentiti per la guida. Questo dato, che rappresenta più del 5% dei casi esaminati, solleva interrogativi sulla sicurezza stradale nel contesto della recente legalizzazione della cannabis, avvenuta ad aprile. La cannabis è diventata legale in Germania il 1° aprile 2024, e il governo ha stabilito regole specifiche riguardo alla quantità di THC che può essere presente nel sangue di un conducente. Se il livello di THC supera i 3,5 nanogrammi per millilitro di sangue, si incorre in sanzioni severe, simili a quelle previste per chi guida in stato di ebbrezza. Per monitorare la situazione, la polizia di Berlino ha avviato controlli massivi in tre distretti della città. Durante un’operazione condotta giovedì pomeriggio su Tempelhofer Damm, più di cinquanta agenti hanno fermato veicoli di ogni tipo su una distanza di 200 metri, impedendo ai conducenti di eludere i controlli. Questi controlli, noti come “DiS days” (rilevamento della droga nel traffico), sono stati introdotti nel 2020 e hanno raggiunto un numero record di veicoli controllati. Il primo ispettore capo Thomas Piotrowski ha dichiarato che l’obiettivo è garantire la sicurezza sulle strade. Alla fine della giornata, 812 veicoli erano stati esaminati e 47 conducenti sono stati sottoposti a esami del sangue. Solo quattro di questi erano stati fermati per sospetto uso di alcol. Questo porta a una conclusione allarmante: più di un tedesco su venti sembra guidare sotto l’effetto del THC. Gli effetti dell’uso della cannabis sulla guida possono essere gravi e includono tempi di reazione rallentati, ridotta percezione degli stimoli luminosi periferici, difficoltà nella coordinazione e scarsa capacità di giudizio. La polizia ha implementato un sistema di controlli professionale e standardizzato per identificare i conducenti sospetti. Gli agenti indirizzano i veicoli selezionati verso il lato destro della strada per effettuare controlli sulla patente e sul libretto di circolazione. Se ci sono sospetti sull’uso di droghe, vengono eseguiti test fisici e, se necessario, test delle urine o etilometri. Se il test delle urine risulta positivo per THC, il conducente deve recarsi in un centro di controllo della polizia per un esame del sangue che determinerà il livello esatto di THC presente. La legge stabilisce chiaramente che superare il limite di 3,5 nanogrammi comporta conseguenze legali significative. In effetti, nei 47 casi riscontrati durante i controlli effettuati a Berlino, il limite era stato superato. La legalizzazione della cannabis ha portato a una serie di cambiamenti normativi in Germania che mirano a regolamentare l’uso della sostanza e a prevenire situazioni pericolose alla guida. Tuttavia, i risultati dei recenti controlli indicano che è necessario prestare maggiore attenzione alla sicurezza stradale e ai rischi associati all’uso della cannabis da parte dei conducenti.

Altre notizie:

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EUROSTAT – E’ CRISI DEMOGRAFICA IN EUROPA

L’Europa si trova di fronte a una grave crisi demografica, con dati allarmanti che riguardano sia il numero di nascite che la crescita della popolazione. Secondo i dati più recenti pubblicati da Eurostat, nel 2022 sono nati meno di 4 milioni di bambini nell’Unione europea, segnando un calo significativo rispetto agli anni precedenti. In particolare, si registra un calo di quasi mezzo milione di nascite rispetto a vent’anni fa. L’Italia, in particolare, è uno dei paesi più colpiti da questa tendenza alla bassa natalità. Nel 2022, sono state registrate solamente 393 mila nascite, rappresentando un drastico calo del 30% rispetto al 2008. Tuttavia, il problema non riguarda solo l’Italia: l’intera Unione europea è alle prese con una diminuzione delle nascite che potrebbe portare, nel giro di pochi anni, a una diminuzione della popolazione complessiva. Secondo Eurostat, nel 2022, nei 27 paesi dell’UE, sono nati circa 3,9 milioni di bambini, registrando un calo significativo rispetto agli anni precedenti. Questa tendenza è in aumento, con un decremento di 210 mila nascite rispetto all’anno precedente e di 540 mila rispetto a dieci anni prima. Il tasso di fecondità medio nell’UE è stimato a 1,46 figli per donna, ben al di sotto della soglia di sostituzione generazionale di 2,1 figli per donna. Le differenze nei dati demografici tra i paesi dell’UE sono evidenti. Ad esempio, la Francia presenta il tasso di fecondità più elevato, pari a 1,79, mentre Malta è al fondo della classifica con un tasso di fecondità di soli 1,01. L’Italia si posiziona tra i paesi con uno dei tassi di fecondità più bassi, con un valore di 1,27. Nonostante alcuni paesi abbiano visto un aumento del tasso di fecondità rispetto a dieci anni fa, il trend generale è al ribasso. L’immigrazione finora ha contribuito a contrastare la diminuzione della popolazione in Europa. Tuttavia, alcuni paesi continuano a registrare una diminuzione della popolazione complessiva, tra cui l’Italia. Nel 2022, i 27 Stati membri dell’UE hanno totalizzato 447 milioni di abitanti, registrando un aumento dell’1,4% rispetto al 2012. Tuttavia, senza l’apporto dell’immigrazione, la popolazione europea sarebbe in costante calo dal 2012. Le previsioni future della popolazione europea, elaborate da Eurostat, indicano un trend in diminuzione dopo il 2030, con un’accelerazione del declino demografico dopo il 2050. Si prevede che entro il 2060, la popolazione europea diminuirà dell’1,5%. Questa diminuzione avrà un impatto significativo su alcuni paesi, come la Lettonia, che potrebbe perdere fino al 28% della sua popolazione.

CORRIERE – ISLANDA DICHIARA STATO DI EMERGENZA PER L’ERUZIONE NELLA PENISOLA DI REYKJANES

L’Islanda ha dichiarato lo stato di emergenza a causa di un’eruzione vulcanica nella penisola di Reykjanes. La lava in movimento ha danneggiato le condutture geotermiche, minacciando l’approvvigionamento di acqua calda per circa 50.000 persone. L’eruzione è iniziata giovedì mattina, con la lava che fuoriesce da una fessura lunga 3 chilometri. Le basse temperature previste per venerdì potrebbero complicare gli sforzi di recupero. Scuole e attrazioni turistiche, come la Laguna Blu, sono chiuse a causa della mancanza di acqua calda. Le autorità stanno cercando di proteggere l’area con barriere di roccia e terra, ma i risultati possono essere incerti. La prima ministra Katrín Jakobsdóttir si è impegnata a ripristinare l’approvvigionamento di acqua calda entro venerdì, con un’attenzione particolare alla sicurezza delle persone e delle infrastrutture. Gli esperti prevedono ulteriori eruzioni nei prossimi mesi, con cinque eruzioni avvenute dal 2021, alcune delle quali hanno causato danni significativi. La valutazione della situazione geologica è resa difficile dalle condizioni meteorologiche avverse.

STATI UNITI

SCENARIECONOMICI – UNA MADRE 53ENNE CONTROLLAVA LA PIU’ GRANDE GANG DEGLI STATI UNITI DI FURTI NEI NEGOZI

Le autorità della California hanno arrestato Michelle Mack, una madre di 53 anni, per presunta organizzazione di una vasta operazione di furto nei negozi. Mack è accusata di aver guidato una banda che ha rubato cosmetici e prodotti di bellezza di marca per un valore stimato di quasi 8 milioni di dollari da catene di grandi magazzini come Ulta, TJ Maxx e Walgreens in diversi Stati degli Stati Uniti. Secondo le indagini, Mack avrebbe orchestrato l’operazione dietro le mura della sua residenza di lusso a San Diego. Si ritiene che abbia reclutato e pagato fino a dodici donne per commettere furti nei negozi in California e in altri dieci Stati, tra cui Texas, Florida e Ohio. I prodotti rubati venivano successivamente rivenduti a prezzi scontati sul sito di Amazon gestito da Mack. Il gruppo criminale, soprannominato “California Girls”, ha operato su vasta scala viaggiando lungo la costa della California e in altri Stati come Texas, Florida, Massachusetts e Ohio, commettendo centinaia di furti su ordine di Mack, secondo quanto riferito dagli investigatori. Con i costi di viaggio coperti da Mack, i sospettati hanno viaggiato attraverso numerosi Stati, commettendo furti lungo la costa californiana e in luoghi come Washington, Utah, Oregon, Colorado, Arizona, Illinois, Texas, Florida, Pennsylvania, Massachusetts e Ohio. Mack, a quanto affermano gli investigatori, selezionava i negozi da colpire e indicava la merce da rubare, mentre le donne reclutate venivano incaricate di svuotare interi scaffali prima di fuggire con la refurtiva, spesso nascosta in borse di lusso come quelle di Louis Vuitton. La denuncia presentata dal Procuratore Generale della California indica che, durante una perquisizione eseguita il 6 dicembre 2023 nella casa condivisa di Michelle e Kenneth Mack a Bonsall, sono stati recuperati oltre 300.000 dollari di cosmetici e altri prodotti. Un vicino di casa dei Mack, intervistato da NBC San Diego e che ha preferito rimanere anonimo, ha commentato: “Vedo che il sistema giudiziario lavora lentamente, ma sembra che stia funzionando”.

Altre notizie:

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ANSA – RECORD DI SUICIDI IN USA: SOPRATTUTO MASCHI

Negli Stati Uniti, nel 2022, si sono suicidate quasi 50.000 persone, un numero record. Il tasso di suicidio è stato di 14,3 morti ogni 100.000 persone, il livello più alto dal 1941. Il record riflette le grandi lotte per aiutare le persone con disagio mentale a seguito della pandemia di COVID-19, che ha sconvolto l’economia, la società e ha lasciato molti isolati e spaventati. Gli esperti di salute mentale hanno affermato che la carenza di operatori sanitari, l’offerta di droghe illecite sempre più tossiche e l’ubiquità delle armi da fuoco hanno facilitato l’aumento dei suicidi. Il numero di morti per suicidio è stato particolarmente alto tra gli uomini, che rappresentano il 77% dei casi.

SUD AMERICA

L’INDIPENDENTE – PERU’: SCOPERTO UN TEMPIO 3.500 ANNI PIU’ ANTICO DEL MACHU PICCHU

Gli archeologi peruviani hanno scoperto i resti di un antico tempio e teatro risalenti a 4.000 – o forse anche 5.000 – anni fa nel sito di Los Paredones de la Otra Banda-Las Ánimas. La scoperta è stata possibile grazie all’indagine condotta da Luis Armando Muro Ynoñán, che ha dichiarato: “È stato davvero sorprendente che queste strutture antichissime fossero così vicine alla superficie moderna”. I ricercatori hanno scavato nel terreno un quadrato di lato 33 piedi (circa 10 metri) e hanno trovato tracce dei muri a soli sei piedi (circa 1,8 metri) di profondità. Procedendo con le indagini, è stata trovata una “sezione” di un grande tempio e persino quello che sarebbe un piccolo teatro “con un’area dietro le quinte e una scalinata che conduceva a una piattaforma simile a un palco”. Il tempio cerimoniale contiene resti umani appartenenti a tre adulti, fregi raffiguranti immagini di animali mitici e tipici della cultura dell’epoca, e diversi doni cerimoniali, suggerendo che i tre defunti siano stati uccisi durante un rituale sacrificale. La scoperta è importante perché il tempio sarebbe stato realizzato da un popolo di cui si hanno ben poche notizie, non dagli Inca. Gli archeologi hanno trovato anche la tomba di un bambino, il cui destino non è chiaro e la cui sepoltura sarebbe avvenuta secoli dopo la costruzione della struttura principale. L’ipotesi più accreditata è che la costruzione sia stata realizzata dai Moche, un popolo abbastanza misterioso di cui si hanno poche informazioni. Il tempio e il teatro sarebbero stati utilizzati per eseguire spettacoli rituali di fronte a un pubblico selezionato. I reperti risultano anteriori nella datazione sia rispetto al sito archeologico più noto del Paese – Machu Picchu – sia rispetto alle culture pre-Inca e Nazca.

Altre notizie:

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ANSA – BRASILE: NEI PRIMI 2 MESI DEL 2024 QUASI UN MILIONE DI CONTAGI DA FEBBRE DENGUE

Il Brasile è alle prese con un’epidemia di febbre dengue, con quasi un milione di casi confermati nei primi due mesi del 2024. Secondo il ministero della Salute, i casi confermati della malattia hanno raggiunto quota 973.347 al 27 febbraio, rappresentando il 58,9% di tutti i contagi dell’anno precedente. Il tasso di incidenza è notevolmente aumentato, passando da 777,6 casi per 100.000 abitanti nel 2023 a 453,3 nel 2024. La situazione è resa ancora più grave dai 195 decessi registrati nei primi due mesi dell’anno, superando il totale di morti dell’intero 2023. Per contrastare l’epidemia, il governo ha stanziato 1,5 miliardi di real (circa 283 milioni di euro) per sostenere le spese degli enti locali. Al fine di sensibilizzare la popolazione sulla prevenzione, è stata organizzata una campagna nazionale il 2 marzo, denominata “D-Day”, durante la quale sarà diffuso un video informativo intitolato “10 minuti contro la dengue”. La ministra della Salute, Nísia Trindade, ha invitato la società a partecipare attivamente alla lotta contro la malattia, adottando misure per eliminare le condizioni favorevoli alla riproduzione delle zanzare Aedes Egypti, vettori dell’arbovirus.

AGI – RIO DE JANEIRO (BRASILE) DICHIARA LO STATO DI EMERGENZA PER LA DENGUE

Le autorità sanitarie di Rio de Janeiro, Brasile, hanno dichiarato lo stato di emergenza a causa dell’incremento dei casi di dengue nell’area metropolitana. Dal 2024, sono stati confermati oltre 10.000 casi, quasi la metà di quelli registrati nell’intero 2023, totalizzando circa 23.000 infezioni. Questa dichiarazione avviene in concomitanza con l’arrivo di migliaia di turisti per il celebre carnevale, che inizierà venerdì e si protrarrà fino al 14 febbraio. La dengue, causata da vari tipi di virus trasmessi dalle zanzare, provoca febbre, mal di testa, dolori articolari ed eruzioni cutanee simili al morbillo. In alcuni casi gravi, può portare a febbre alta con emorragie interne, risultando potenzialmente letale. Per il completo decorso della malattia, sono necessarie diverse settimane. Le autorità sanitarie stanno implementando misure speciali, tra cui l’apertura di dieci centri di assistenza, un centro operativo di emergenza e un aumento dei posti letto dedicati ai pazienti con dengue negli ospedali. Inoltre, saranno utilizzati insetticidi nelle regioni con la più alta incidenza di contagi. Nel 2023, la dengue ha causato oltre 5.000 morti in vari paesi, principalmente in Brasile, Perù e Messico. Sebbene siano stati compiuti progressi, al momento non esistono vaccini efficaci per prevenire la malattia.

ANSA – PERU’ DICHIARA STATO DI EMERGENZA SANITARIA PER LA DENGUE

Il governo del Perù ha preso la decisione di dichiarare lo stato di emergenza sanitaria a causa di un’epidemia di febbre dengue che sta colpendo gravemente diverse regioni del paese. La mossa è stata deliberata durante un consiglio dei ministri presieduto dalla presidente Dina Boluarte. Attualmente, la crisi coinvolge 20 delle 24 regioni del Perù, con un totale di 24.981 casi confermati. Secondo il ministro della Salute, Casar Vasquez, più dell’83% del territorio peruviano è interessato dalla malattia, evidenziando la vastità e la gravità dell’epidemia. I dati ufficiali del ministero della Salute rivelano un incremento dei casi del quasi 100% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con già 32 decessi attribuiti alla dengue rispetto ai 18 registrati nello scorso anno. L’Argentina e il Brasile hanno già adottato misure simili per affrontare la crescente diffusione della malattia. La febbre dengue è causata da un arbovirus trasmesso dalla puntura della zanzara Aedes aegypti e può manifestarsi con sintomi quali febbre alta, dolori muscolari, eruzioni cutanee e, nei casi più gravi, emorragie interne, potenzialmente letali.

ILPOST – SCOPERTA UNA RETE DI ANTICHE CITTA’ IN AMAZZONIA QUANDO IN EUROPA C’ERA L’IMPERO ROMANO

Un team di archeologi, guidato da Stéphen Rostain, ha fatto una straordinaria scoperta nella foresta amazzonica dell’Ecuador: i resti di antiche città risalenti al periodo tra il 500 a.C. e il 600 d.C. L’importanza di questo ritrovamento è amplificata dal fatto che queste città appartenevano al popolo Upano, la più antica società umana amazzonica mai studiata, costruendo e abitando nella regione quando in Europa fioriva l’Impero Romano. Le rivelazioni sono state documentate su Science, evidenziando che questa cultura precolombiana precede di almeno mille anni le società amazzoniche precedentemente conosciute. Rostain, esperto archeologo delle civiltà precolombiane amazzoniche, iniziò la ricerca decenni fa, ma solo recentemente il Lidar, uno strumento basato su laser, ha permesso di mappare aeree nascoste e rivelare collegamenti tra siti precedentemente sconosciuti. L’uso del Lidar ha rivelato una rete complessa di strade che collegavano cinque grandi insediamenti e dieci più piccoli, abbracciando un’area di 300 chilometri quadrati. La scoperta include tracce di campi coltivati, canali, abitazioni e strutture cerimoniali. Gli archeologi stimano che la popolazione potesse variare da 10mila a 30mila persone durante i picchi demografici, dimostrando la complessità organizzativa di queste antiche civiltà amazzoniche. Questa scoperta sfida l’idea precedente che le popolazioni amazzoniche fossero principalmente nomadi, evidenziando la presenza di società più strutturate e avanzate prima del contatto con gli europei. La ricerca apre nuove prospettive sulla storia dell’Amazzonia e sulla sua ricca diversità culturale prima della colonizzazione europea.

AFRICA

ANSA – AFRICA QUASI SENZA INTERNET PER DANNI AI CAVI SOTTOMARINI

L’accesso a Internet in Africa è sempre più complicato a causa dei danni ai cavi sottomarini, che stanno causando instabilità nella connettività Wi-Fi in diversi Paesi del continente. Quattro dei principali cavi dati sottomarini che servono l’Africa sono stati danneggiati, rendendo difficile la fruizione dei servizi online. Secondo quanto riportato dall’Economist, il continente è stato colpito da due guasti critici in punti strategici del pianeta. La situazione ha causato ritardi significativi, come la chiusura posticipata della Borsa del Ghana e l’interruzione delle attività commerciali di un’azienda nigeriana di cemento. NetBlocks, una società di ricerca digitale, ha evidenziato che la connettività dati è crollata al di sotto dei livelli normali in Liberia, Benin e Costa d’Avorio, dove è scesa addirittura al 3%. Anche se una parte del traffico è stata ripristinata, il Wi-Fi rimane instabile in diversi Paesi, tra cui il Sudafrica. La causa di questo problema risiede nei danni subiti da quattro dei principali cavi dati sottomarini che collegano l’Africa al resto del mondo, incluso il West African Cable System (WACS). Le rotture sono avvenute in prossimità della Costa d’Avorio, probabilmente a causa di attività sismica sul fondo del mare. MainOne, l’azienda che gestisce uno dei cavi dell’Africa occidentale, ha escluso cause umane come la pesca, attribuendo il danno all’attività sismica. Le autorità competenti prevedono che ci vorranno almeno cinque settimane per risolvere completamente la situazione e ripristinare la connettività internet nelle aree colpite.

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APRI/CHIUDI
UNICEF – EPIDEMIA DI COLERA IN DIVERSI PAESI DELL’AFRICA MERIDIONALE (220 MILA CASI E OLTRE 4 MILA MORTI)

L’epidemia di colera che sta colpendo diversi paesi dell’Africa meridionale è la più grave degli ultimi dieci anni, con 220.000 casi e oltre 4.000 morti. Le cause principali sono le alluvioni che hanno interessato la regione, peggiorando le già precarie condizioni dei sistemi di distribuzione e scolo dell’acqua. I paesi più colpiti sono Zambia, Malawi, Zimbabwe, Repubblica Democratica del Congo e Mozambico. In Zambia, si sono verificati 18.500 casi con 650 decessi. Il tasso di letalità è del 3,5%, superiore alla media dell’1%. Il colera è causato da un batterio che si sviluppa in acqua e alimenti contaminati. Provoca diarrea e disidratazione, che può essere fatale se non trattata adeguatamente. Esistono vaccini contro il colera, ma la produzione è insufficiente per soddisfare la domanda. L’OMS ha intensificato il proprio impegno nella regione, fornendo personale sanitario, farmaci e altri beni di prima necessità. Le organizzazioni umanitarie come Medici senza frontiere stanno lavorando per fornire assistenza sanitaria e sensibilizzare la popolazione sulla prevenzione del colera. La Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale si è impegnata a migliorare le condizioni igienico-sanitarie, ma la manutenzione e la costruzione di nuovi impianti di gestione dell’acqua è costosa e non sempre possibile. L’obiettivo di ridurre le morti per colera del 90% entro il 2030 è ancora lontano, anche a causa dell’aumento dei casi negli ultimi anni.

ILPOST – AFRICA: LA DROGA SINTETICA “KUSH” CHE STA CAUSANDO CENTINAIA DI MORTI

Una droga sintetica nota come “kush” sta causando centinaia di morti in Africa occidentale, in particolare in Sierra Leone, Guinea e Liberia. La sostanza, con effetti sedativi e altamente dipendenza, ha portato a un aumento significativo dei decessi, con decine di vittime ogni settimana. Nonostante non abbia un nome preciso, il “kush” è generalmente composto da una miscela di cannabis sintetica, fentanyl, tramadolo e formalina. Alcune storie riportano addirittura l’utilizzo di ossa umane come ingrediente, sebbene ciò sia difficile da verificare. La droga, fumata insieme a erbe e altre sostanze sintetiche, provoca una serie di sintomi, tra cui euforia, sonnolenza e gravi danni fisici, come piaghe alle gambe. L’abuso di “kush” è spesso attribuito a giovani in cerca di evasione da una realtà difficile, caratterizzata da povertà e scarsa prospettiva di lavoro. Tuttavia, oltre al rischio di overdose, la droga può causare incidenti mortali, come cadute o investimenti, a causa dello stordimento indotto. La diffusione del “kush” ha superato i confini della Sierra Leone, raggiungendo Liberia e Guinea. Tuttavia, le risorse sanitarie per trattare la dipendenza da questa droga sono insufficienti, con pochi centri di riabilitazione e un numero limitato di psichiatri disponibili. Nonostante gli sforzi per combattere il problema, compreso il miglioramento degli interventi sanitari e la riduzione dello stigma associato alla dipendenza, il “kush” continua a rappresentare una minaccia per la salute pubblica in Africa occidentale, con un crescente numero di vittime e una carenza di risorse per affrontare l’emergenza.

ASIA

SCENARIECONOMICI - L'INDIA (PAESE PIU' POPOLOSO AL MONDO) HA UN PROBLEMA DI INFERTILITA'

SCENARIECONOMICI – L’INDIA (PAESE PIU’ POPOLOSO AL MONDO) HA UN PROBLEMA DI INFERTILITA’

L’India, il paese più popoloso al mondo, sta affrontando un crescente problema di infertilità, particolarmente diffuso nelle aree urbane. Mentre alcune cause sono attribuibili a cambiamenti culturali, altre sono legate a fattori fisiologici. Secondo dati ufficiali, il tasso di fertilità totale (TFR) in India è diminuito del 20% negli ultimi dieci anni, scendendo al di sotto dei livelli di sostituzione. Nel contempo, l’incidenza dell’infertilità è aumentata, spingendo molte coppie a ricercare trattamenti come la fecondazione in vitro. La dottoressa Sulbha Arora, direttore clinico di Nova IVF Fertility a Mumbai, sottolinea che l’infertilità è diventata un problema serio di salute pubblica, coinvolgendo circa il 15% delle coppie a livello globale, con una concentrazione significativa in India, dove 15-20 milioni di coppie sono afflitte da questa condizione. Un rapporto della Società Indiana di Riproduzione Assistita ha evidenziato che circa il 10-14% delle coppie indiane è colpito dall’infertilità, con una maggiore prevalenza nelle città, dove una coppia su sei cerca assistenza per concepire. Lo studio pubblicato sulla rivista PLOS One ha indicato un aumento dell’infertilità secondaria, passando dal 19,5% nel 1992-1993 al 28,6% nel 2015-2016. Questo tipo di infertilità si riferisce alla difficoltà di concepire un altro figlio dopo averne già avuto uno. Sebbene l’infertilità sia spesso associata alla donna nella società indiana, la dottoressa Arunima Halder del Manipal Hospital Whitefield di Bengaluru sottolinea che le cause possono essere di diversa natura, inclusi fattori maschili, femminili o una combinazione di entrambi. Un rapporto dell’OMS ha rilevato che circa il 50% dei casi di infertilità in India è attribuibile a fattori maschili, con lo stress, le cattive abitudini alimentari e l’inquinamento ambientale elencati come possibili cause della diminuzione della qualità dello sperma e dei livelli di testosterone negli uomini indiani. Tuttavia, i fattori sociali e culturali giocano anche un ruolo significativo. Il matrimonio più tardivo e le crescenti opportunità di carriera per le donne stanno influenzando la decisione di formare famiglie. Inoltre, i dispositivi tecnologici, come i telefoni cellulari, possono contribuire a una riduzione dell’attività sessuale regolare. Sebbene l’accettazione dell’infertilità come una questione medica stia aumentando in India, molti trattamenti, come la fecondazione in vitro, rimangono fuori dalla portata di molte famiglie a causa dei costi elevati. Tuttavia, i governi statali stanno intervenendo per rendere tali trattamenti più accessibili, aprendo centri di fecondazione in vitro in strutture pubbliche e regolamentando il settore. Nonostante gli sforzi per affrontare l’infertilità, la proliferazione di cliniche private non regolamentate solleva preoccupazioni riguardo alle pratiche poco scrupolose. Il recente Regolamento sulla Tecnologia Riproduttiva Assistita mira a rendere più rigorosa la supervisione del settore.

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ANSA – GIAPPONE PERDE IL POSTO COME TERZA ECONOMIA PIU’ GRANDE AL MONDO ED ENTRA IN RECESSIONE

Il Giappone è ufficialmente in recessione tecnica. Il PIL del paese è sceso per due trimestri consecutivi, segnando una contrazione dello 0,1% nel quarto trimestre del 2023 e dello 0,4% rispetto allo stesso periodo del 2022. Oltre alla recessione, il Giappone perde anche il terzo posto nella classifica delle economie mondiali, sorpassato dalla Germania. La causa principale è il deprezzamento dello yen, che ha reso l’economia giapponese meno valutabile in dollari. Nonostante la crescita annuale del 1,9% nel 2023, il Giappone soffre da tempo di una serie di problemi economici: Debolezza dello yen: la valuta locale ha perso valore, rendendo le importazioni più costose e alimentando l’inflazione. Inflazione: l’aumento del costo della vita ha frenato consumi e investimenti. Bassa crescita: l’economia giapponese cresce pochissimo da anni, con un tasso di crescita del reddito pro capite tra i più bassi del mondo. Invecchiamento della popolazione: la forza lavoro si riduce, con negative conseguenze su innovazione e produttività. La situazione del Giappone è simile a quella dell’Italia: alto debito pubblico (240% del PIL), bassa crescita e popolazione invecchiata.

AGENZIANOVA – POPOLAZIONE CINESE DIMINUITA PER IL SECONDO ANNO CONSECUTIVO

La popolazione cinese è diminuita per il secondo anno consecutivo nel 2023, registrando un calo di 2,08 milioni di persone. La popolazione complessiva della Cina continentale è ora di 1,4097 miliardi di persone, rispetto ai 1,4118 miliardi del 2022. Il calo della popolazione è stato causato da un tasso di natalità in calo e da un tasso di mortalità in aumento. Il numero di nuovi nati è sceso a 9,02 milioni nel 2023, in calo del 5,6% rispetto al 2022. Il tasso di natalità è sceso a 6,39 nascite ogni 1.000 persone, il livello più basso dall’inizio delle registrazioni nel 1949. Il tasso di mortalità è salito a 10,1 milioni nel 2023, in aumento del 4,9% rispetto al 2022. Il tasso di mortalità è il più alto dal 1961. Il calo della popolazione cinese rappresenta una sfida significativa per il governo. La Cina ha beneficiato di un dividendo demografico per decenni, con una popolazione in crescita che ha fornito una forza lavoro in aumento. Tuttavia, con la popolazione che invecchia e il tasso di natalità che continua a diminuire, il dividendo demografico sta svanendo. Il governo cinese ha cercato di stimolare la natalità con una serie di politiche, tra cui l’abolizione della politica del figlio unico nel 2015. Tuttavia, queste politiche non hanno avuto l’effetto sperato. I ricercatori ritengono che il calo della popolazione cinese sia destinato a continuare nei prossimi anni. Il professor Peng Xizhe del Centro per gli Studi sulla Popolazione e le Politiche di Sviluppo della Fudan University ha affermato che è quasi certo che la popolazione continuerà a crescere in maniera negativa. Il calo della popolazione cinese avrà un impatto significativo sull’economia e sulla società del paese. Una popolazione invecchiante significa una forza lavoro in diminuzione, una minore capacità di spesa e un sistema di previdenza sociale in difficoltà.

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