Cos’è la strage di via D’Amelio?

La strage di via D’Amelio è stata un attacco terroristico-mafioso che ha avuto luogo domenica 19 luglio 1992 a Palermo

Cos'è la strage di via D'Amelio?
Cos’è la strage di via D’Amelio? La strage di via D’Amelio è stata un attacco terroristico-mafioso che ha avuto luogo domenica 19 luglio 1992 a Palermo, Italia. È avvenuta al numero civico 19 di via Mariano D’Amelio. Nell’attentato hanno perso la vita il magistrato italiano Paolo Borsellino e 5 agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi (che è stata la prima donna a far parte di una scorta e anche la prima donna della Polizia di Stato a morire in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto è stato l’agente Antonino Vullo, che al momento dell’esplosione stava parcheggiando una delle auto della scorta.

Storia
Precedenti tentativi di attentato

Nel corso degli anni ’80, Cosa Nostra aveva il progetto di assassinare Paolo Borsellino, soprattutto quando il magistrato stava indagando sull’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. I primi tentativi concreti risalgono al 1987, quando Borsellino era procuratore capo a Marsala. Il boss Salvatore Riina incaricò Baldassare Di Maggio di sorvegliare il magistrato quando trascorreva le vacanze nella sua villa a Villagrazia di Carini. Nel 1991, sempre con l’approvazione di Riina, il piano si sviluppò ulteriormente. Francesco Messina assegnò a Vito Mazzara il compito di eseguire un attentato durante il tragitto di Borsellino da casa al lavoro. Questo avrebbe potuto avvenire utilizzando un fucile di precisione o un’autobomba. Tuttavia, il progetto fu fermato dall’opposizione di Vincenzo D’Amico e Francesco Craparotta, capi delle Famiglie di Marsala, che rivelarono l’informazione all’esterno, portando a un aumento delle misure di sicurezza intorno al magistrato.

Nel 1988, un altro tentativo era in fase di preparazione quando Borsellino si stava recando a Palermo per passare la domenica con la sua famiglia. Un gruppo di mafiosi aveva l’intenzione di attaccarlo mentre usciva di casa, ma l’attacco venne annullato all’ultimo momento perché si accertò che non fosse fattibile dopo alcuni appostamenti intorno all’abitazione.

La decisione dell’attentato

La decisione di compiere gli attentati contro i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino fu presa durante alcune riunioni della “Commissione interprovinciale” di Cosa Nostra, avvenute vicino a Enna tra settembre e dicembre del 1991. Queste riunioni erano presiedute dal capo mafioso Salvatore Riina, durante le quali furono identificati anche altri obiettivi da colpire. Successivamente, durante una riunione della “Commissione provinciale” che si tenne nella casa di Girolamo Guddo a dicembre, parteciparono importanti membri della mafia come Riina, Matteo Motisi, Giuseppe Farinella, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Pietro Aglieri, Michelangelo La Barbera, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Raffaele Ganci, Nino Giuffrè, Giuseppe Montalto e Salvatore Madonia. Durante questa riunione, fu elaborato un piano che prevedeva gli omicidi di Falcone e Borsellino, insieme a personaggi considerati non affidabili, tra cui l’onorevole Salvo Lima e altri politici democristiani.

Dopo la conferma delle condanne all’ergastolo nel Maxiprocesso di Palermo (30 gennaio 1992), ci furono ulteriori riunioni ristrette della “Commissione provinciale” presso la casa di Girolamo Guddo, con la partecipazione di Riina, Salvatore Biondino, Raffaele Ganci, Giovanni Brusca, Michelangelo La Barbera e Salvatore Cancemi. Durante queste riunioni si decise di avviare gli attentati: il 12 marzo fu ucciso Salvo Lima e il 23 maggio avvenne la devastante strage di Capaci, che causò la morte di Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e di tre agenti di scorta.

Nel mese successivo, durante un’altra riunione nella casa di Guddo, Riina espresse a Biondino, Cancemi e Ganci la sua “premura” nell’eseguire un attentato contro Borsellino. In particolare, sottolineò a Ganci che “la responsabilità era sua” e incaricò Biondino di organizzare tutto con urgenza.

I preparativi

Nella prima settimana di luglio, Giuseppe Graviano, capo della Famiglia di Brancaccio, fece un primo giro di ricognizione in via Mariano D’Amelio con il suo autista Fabio Tranchina. Gli chiese di procurare un appartamento nelle vicinanze.

Nella notte dell’8 luglio, Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino, affiliati di Brancaccio, rubarono una Fiat 126 di colore amaranto in via Bartolomeo Sirillo, su incarico di Cristofaro Cannella, braccio destro di Graviano. L’auto appena rubata fu portata in un deposito a Brancaccio, dove Spatuzza teneva anche alcuni fusti di metallo contenenti esplosivo militare del tipo Semtex-H, fatto con una miscela di PETN, tritolo e T4, ottenuto da resti bellici recuperati dal mare.

L’11 luglio, l’auto fu spostata in un garage a Corso dei Mille, dove un meccanico di fiducia la rimise a posto, riparando i freni e la frizione danneggiati.

Sempre l’11 luglio, Salvatore Biondino insieme ai due cugini omonimi Salvatore Biondo, noti come “il corto” e “il lungo“, e a Giovan Battista Ferrante, affiliati di San Lorenzo, testarono il telecomando e le trasmissioni che dovevano essere usati nell’attentato. Questi dispositivi erano stati forniti da un commerciante che non aveva precedenti penali. La prova fu condotta presso Villa Ferreri, una vecchia residenza del 1700 vicino al quartiere Tommaso Natale, che fungeva da deposito di armi per la Famiglia.

Tra il 13 e il 14 luglio, Raffaele Ganci e suo figlio Domenico andarono a trovare il nipote Antonino Galliano, un guardia giurata impiegata presso una filiale della Sicilcassa e affiliato alla Famiglia della Noce. Gli fu chiesto di pedinare Borsellino la domenica successiva, come aveva già fatto con Falcone durante l’attentato di Capaci. In quei giorni, Spatuzza fu chiamato da Giuseppe Graviano, che gli diede istruzioni per rubare le targhe da mettere sulla Fiat 126. Inoltre, sempre in quei giorni, Graviano fece un secondo sopralluogo in via D’Amelio, ancora con Tranchina. Gli chiese se aveva trovato l’appartamento che gli aveva chiesto in precedenza. Di fronte alla risposta negativa di Tranchina, Graviano commentò che “allora si sarebbe messo comodo nel giardino“.

Il 16 luglio, Giovanni Brusca si offrì a Biondino per partecipare all’attentato, ma questi gli disse che già aveva “qualcuno sotto mano” e non aveva bisogno del suo aiuto. Nello stesso giorno, Biondino avvertì Ferrante di non allontanarsi da Palermo la domenica successiva, dicendogli che ci sarebbe stato molto da fare. Due giorni dopo, anche Ganci comunicò a Cancemi che l’attentato sarebbe stato perpetrato di domenica, durante una visita del magistrato a sua madre, e che Biondino aveva già preparato tutto nei minimi dettagli.

Nella mattinata del 18 luglio, Spatuzza e Tutino si recarono presso un elettrauto in Corso dei Mille per acquistare due batterie per auto e un’antennina da installare sull’autobomba. Successivamente, nel primo pomeriggio, portarono la Fiat 126 e l’attrezzatura acquistata in un garage situato in via Villasevaglios. Qui notarono la presenza di Francesco Tagliavia e Lorenzo Tinnirello, entrambi affiliati alla mafia di Corso dei Mille, oltre a una terza persona sconosciuta. Tuttavia, se ne andarono subito dopo aver effettuato la consegna. Sempre nel pomeriggio del 18 luglio, Spatuzza e Tutino rubarono le targhe da un’altra Fiat 126 nella carrozzeria di Giuseppe Orofino a Corso dei Mille. Successivamente, Spatuzza consegnò le targhe a Graviano presso il maneggio dei fratelli Salvatore e Nicola Vitale, affiliati mafiosi di Roccella. Salvatore Vitale abitava in via D’Amelio e quindi aveva la possibilità di osservare i movimenti di Borsellino. Sempre nella stessa giornata, Biondino fornì a Ferrante un bigliettino con un numero di cellulare (che successivamente si scoprirà essere utilizzato da Cristofaro Cannella) da contattare per comunicare i movimenti di Borsellino. Furono dati appuntamento per il mattino seguente.

Gli appostamenti

Nelle prime ore del mattino del 19 luglio, Tranchina accompagnò Graviano (che aveva dormito a casa sua) a un incontro che aveva con Cristofaro Cannella. Successivamente, Tranchina si recò al mare con la sua famiglia, lasciandoli insieme per l’intera giornata. Alle 07:00 del mattino, i membri delle Famiglie mafiose della Noce, Porta Nuova e San Lorenzo iniziarono a “pattugliare” le zone intorno a via Cilea (dove abitava Borsellino) e via D’Amelio. Una prima auto era occupata da Biondino e Biondo “il lungo”, mentre una seconda trasportava Cancemi e Raffaele Ganci. Galliano, Ferrante e i fratelli Domenico e Stefano Ganci si muovevano singolarmente, a volte anche a piedi.

Poiché il magistrato non si recò dalla madre durante la mattinata, ma andò con la famiglia nella villa al mare a Villagrazia di Carini, il pedinamento venne interrotto. Riprese nel primo pomeriggio, ma senza la presenza di Galliano, che andò al lavoro. Nel frattempo, Ganci e Cancemi si recarono ad attendere l’esito dell’attentato a casa di un loro sostenitore. Alle 16:52, Ferrante, che si trovava in una traversa di Viale della Regione Siciliana, chiamò da una cabina telefonica il numero annotato sul biglietto, segnalando il passaggio delle tre auto blindate di scorta che stavano trasportando Borsellino in via D’Amelio.

La strage

Il 19 luglio 1992, alle 16:58, una Fiat 126 rubata e contenente circa 90 chilogrammi di esplosivo Semtex-H, probabilmente telecomandati a distanza, esplose in via Mariano D’Amelio al civico 21 a Palermo. L’esplosione avvenne sotto il palazzo dove all’epoca vivevano Maria Pia Lepanto e Rita Borsellino, madre e sorella del magistrato Paolo Borsellino, che quel giorno aveva fatto loro visita. Un agente sopravvissuto, Antonio Vullo, ha descritto l’esplosione come improvvisa e devastante, causando un’onda d’urto che lo ha sbalzato dal sedile dell’auto: “Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto.”

I testimoni sul luogo parlarono di auto distrutte dalle fiamme, proiettili che esplodevano da sole a causa del calore, e persone ferite che chiedevano aiuto. L’esplosione ha causato danni gravissimi agli edifici e ai negozi lungo la via, con ripercussioni sugli abitanti.

Giuseppe Ayala, deputato ed ex-giudice che viveva nelle vicinanze, giunse sul luogo pochi minuti dopo l’esplosione.

Gli agenti di scorta avevano precedentemente segnalato il rischio in quella strada, chiedendo alla Questura di vietare il parcheggio di veicoli davanti alla casa, ma la richiesta non era stata presa in considerazione. La situazione drammatica portò anche il giudice Caponnetto a esprimere disperazione e sgomento, dichiarando “È finito tutto!” dopo aver visto il corpo di Borsellino, stringendo le mani del giornalista che gli faceva domande.

Reazioni

Dopo la strage, avvenuta soli 57 giorni dopo quella di Capaci, Claudio Martelli, Ministro della Giustizia all’epoca, in data 19 luglio, ha attivato urgentemente il regime di carcere duro (articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario) per circa 300 detenuti coinvolti in reati legati alla mafia, ‘ndrangheta e camorra. Questi detenuti sono stati trasferiti di corsa nei penitenziari dell’Asinara e di Pianosa per limitare al minimo i loro contatti esterni.

Il 21 luglio, nella Cattedrale di Palermo, si sono svolti i funerali dei 5 agenti di scorta uccisi. L’intera popolazione cittadina ha partecipato, ma la cerimonia è stata segnata da feroci proteste: 4000 agenti sono stati chiamati per mantenere l’ordine. La folla ha contestato il blocco di accesso alla Cattedrale e ha protestato anche contro i rappresentanti dello Stato presenti, incluso il neo-presidente della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro, costretto ad uscire da una porta laterale alla fine della messa tra spintoni, calci e pugni. Il Capo della polizia, Vincenzo Parisi, è stato persino colpito da uno schiaffo nella confusione.

Solo pochi giorni dopo, il 24 luglio, circa 10.000 persone hanno partecipato ai funerali privati di Borsellino nella chiesa di Santa Maria Luisa di Marillac. La famiglia del giudice ha rifiutato il rito di Stato, poiché la moglie, Agnese, ha accusato il governo di non aver saputo proteggere suo marito. Ha voluto una cerimonia privata senza la presenza di politici. L’orazione funebre è stata tenuta da Antonino Caponnetto, vecchio giudice che aveva diretto l’ufficio di Falcone e Borsellino, con parole che hanno sottolineato l’importanza di continuare la lotta intrapresa dal giudice.

In quei giorni, otto sostituti procuratori della Procura di Palermo e ex colleghi del giudice ucciso (Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Teresa Principato, Ignazio De Francisci, Vittorio Teresi, Giovanni Ilarda e Nino Napoli) hanno minacciato di dimettersi in massa per protestare contro il procuratore capo Pietro Giammanco, colpevole, secondo loro, di aver isolato progressivamente Falcone e Borsellino. Questa protesta ha scatenato un conflitto interno alla Procura, costringendo il Consiglio superiore della magistratura a intervenire e ha portato il procuratore Giammanco a richiedere il trasferimento. Successivamente è stato sostituito da Gian Carlo Caselli.

Lo stesso 24 luglio, mentre a Palermo si svolgevano i funerali di Borsellino, il Consiglio dei ministri presieduto da Giuliano Amato ha dato inizio all’operazione denominata “Vespri Siciliani“. Con il decreto-legge n. 349 del 25 luglio 1992, sono stati autorizzati circa 7000 militari in Sicilia per operazioni di sicurezza e controllo del territorio per prevenire reati legati alla criminalità organizzata. Questo decreto ha concesso al personale militare alcune funzioni proprie degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza. Il Parlamento, il 7 agosto successivo, ha convertito in legge, senza modifiche, il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, noto come “Scotti-Martelli“, che ha reso più stringenti le disposizioni dell’articolo 41 bis riguardanti il “carcere duro” per i detenuti legati alla mafia.

Indagini e processi

Le prime indagini sulla strage di via d’Amelio, condotte dal Procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra insieme ai sostituti procuratori Ilda Boccassini e Fausto Cardella, furono inizialmente supportate dai sostituti Annamaria Palma, Nino Di Matteo e Carmelo Petralia. Nel settembre 1992, il gruppo investigativo della Polizia di Stato noto come “Falcone-Borsellino” e guidato dal capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, identificò e arrestò Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino, entrambi con precedenti penali per rapina, spaccio di droga e violenza sessuale.

Candura e Scarantino, autoaccusatisi del furto della Fiat 126 usata nell’attentato, furono indicati anche da Francesco Andriotta, compagno di cella di Scarantino, come coinvolti nell’esecuzione della strage. Scarantino dichiarò di aver ricevuto l’incarico di rubare l’auto da Salvatore Profeta, mafioso deceduto nel 2018, e di averla portata in un’officina per la preparazione dell’autobomba. Inoltre, Scarantino accusò un gruppo di fuoco del “mandamento” di Santa Maria di Gesù-Guadagna di essere gli autori della strage di via d’Amelio e riferì di aver casualmente assistito a una riunione della “Commissione” nella villa di Giuseppe Calascibetta, in cui fu pianificato l’omicidio di Borsellino.

Successivamente, Scarantino affermò che alla riunione nella villa di Calascibetta erano presenti anche Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera, entrambi diventati collaboratori di giustizia, ma entrambi negarono tale circostanza. Queste dichiarazioni portarono al primo processo per la strage di via d’Amelio, noto come “Borsellino uno“, iniziato nell’ottobre 1994. Gli imputati erano Scarantino, Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto, accusato di aver manipolato gli impianti telefonici del palazzo di via D’Amelio.

Durante il processo, gli avvocati difensori chiamarono a testimoniare un transessuale e due travestiti che affermavano di aver avuto una relazione con Scarantino, nel tentativo di mettere in discussione le sue dichiarazioni. Nel luglio 1995, Scarantino ritrattò le sue accuse in un’intervista telefonica trasmessa da Studio Aperto, affermando di aver accusato persone innocenti. Tuttavia, i giudici non ritennero credibile questa ritrattazione.

Nel 1996, la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò in primo grado Profeta, Orofino e Scotto all’ergastolo, mentre Scarantino fu condannato a diciotto anni di carcere. Nel 1999, la Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta giudicò Scarantino inattendibile in base alle dichiarazioni del nuovo collaboratore di giustizia Giovan Battista Ferrante, confermando la condanna a diciotto anni. Le condanne per Profeta e la riduzione della pena per Orofino vennero confermate nel 2000 dalla Corte di cassazione.

Borsellino bis

Nel gennaio 1996, vennero portati a processo Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe Graviano e Salvatore Biondino, accusati da Scarantino di essere stati coinvolti nella riunione in casa di Calascibetta, in cui si sarebbe decisa l’uccisione di Borsellino. Altri accusati, come Francesco Tagliavia, Cosimo Vernengo, Natale ed Antonino Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Murana, Gaetano Scotto, Giuseppe Urso, Salvatore Tomaselli, Giuseppe Romano e Salvatore Vitale, furono imputati nel secondo filone del processo per la strage di via d’Amelio, chiamato “Borsellino bis“, che ebbe inizio il 14 maggio dello stesso anno.

Durante un’udienza nel settembre 1998, Scarantino ritrattò pubblicamente tutte le sue accuse, affermando di essere stato maltrattato durante la sua detenzione a Pianosa e di essere stato costretto a collaborare dal questore La Barbera.

Nonostante la nuova ritrattazione di Scarantino, i giudici non credettero nuovamente alle sue affermazioni. Nel 1999, la Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Pietro Falcone, condannò in primo grado diversi imputati all’ergastolo, tra cui Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia. Altri furono condannati a diverse pene detentive per associazione mafiosa, ma assolti dall’accusa di strage. Alcuni furono assolti, come Giuseppe Romano.

Durante il processo d’appello, venne acquisita la testimonianza di Calogero Pulci, ex mafioso e collaboratore di giustizia, che confermò le dichiarazioni di Scarantino riguardo alla partecipazione di Gaetano Murana alla strage. Inoltre, il vicequestore Gioacchino Genchi avanzò l’ipotesi, poi risultata falsa, che il telecomando che aveva causato l’esplosione fosse stato azionato dal castello Utveggio sul monte Pellegrino, sede distaccata del SISDE.

Nel marzo 2002, la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, presieduta da Francesco Caruso, confermò le condanne per il reato di strage a diversi imputati, tra cui Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gaetano Murana, che erano stati assolti in primo grado da questa accusa. Vennero anche confermate le pene per gli altri imputati. Nel luglio 2003, la Corte di Cassazione confermò queste condanne e l’assoluzione di Giuseppe Romano.

Borsellino ter

Nel 1998 ebbe inizio il terzo segmento del procedimento giudiziario, conosciuto come “Borsellino ter“. Questa fase si basò sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giovan Battista Ferrante, Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Calogero Ganci, Antonino Galliano e Francesco Paolo Anzelmo. Tra gli imputati figuravano diversi individui, tra cui Giuseppe “Piddu” Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia, Mariano Agate, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Lucchese, Benedetto Spera, oltre ai collaboratori Brusca e Cancemi. Erano accusati di far parte delle “Commissioni” di Cosa Nostra, presumibilmente approvando la realizzazione della strage. Tra gli imputati c’erano anche Salvatore Biondo (classe 1955), l’altro Salvatore Biondo (classe 1956), Domenico e Stefano Ganci, Cristofaro Cannella e lo stesso collaboratore Ferrante. A questi ultimi veniva attribuita l’accusa di aver testato il funzionamento del telecomando e dei dispositivi elettrici usati per l’esplosione e di aver telefonato per segnalare gli spostamenti del giudice Borsellino e della sua scorta poco prima dell’attentato.

Nel 1999, la Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Carmelo Zuccaro, emise una sentenza condannando diversi individui a pene detentive. Alcuni, come Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Calò e altri, furono condannati all’ergastolo, mentre altri, come Salvatore Biondo, Francesco Madonia e altri ancora, ricevettero pene inferiori. Collaboratori di giustizia come Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca furono condannati a pene tra i 23 e i 16 anni di carcere.

Nel febbraio 2002, la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, guidata da Giacomo Bodero Maccabeo, modificò la sentenza precedente, emettendo nuove condanne all’ergastolo e riducendo le pene per alcuni imputati. Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò e altri furono condannati all’ergastolo, mentre Stefano Ganci ricevette vent’anni di carcere.

Nel gennaio 2003, la Corte di Cassazione annullò alcune assoluzioni e condanne, ordinando un nuovo processo per alcuni imputati, tra cui Salvatore Buscemi, Giuseppe Farinella e altri. La sentenza originale venne in gran parte confermata, ma alcune condanne vennero annullate e rinviate per un ulteriore processo.

Successivamente, nel processo riunito con lo “stralcio del Borsellino ter“, la Corte d’Assise d’Appello di Catania condannò vari imputati, inclusi Salvatore Montalto e Benedetto Santapaola, all’ergastolo per la strage di Capaci. Altri imputati, come Antonino Giuffrè e Stefano Ganci, ricevettero pene minori, mentre alcuni imputati furono assolti.

La Corte di Cassazione confermò questa sentenza nel settembre 2008.

La riapertura delle indagini e il processo Borsellino quater

Nel giugno 2008, Gaspare Spatuzza, ex mafioso di Brancaccio, ha cominciato a collaborare con la giustizia, ammettendo di aver rubato una Fiat 126 utilizzata nell’attentato di via d’Amelio. Questo contrastava con la versione fornita da altri collaboratori di giustizia. Spatuzza ha dichiarato di aver commesso il furto undici giorni prima dell’attentato, insieme a Vittorio Tutino, per conto di Cristofaro Cannella e Giuseppe Graviano della Famiglia di Brancaccio. Ha affermato di aver portato l’auto rubata in un’officina di Maurizio Costa per riparare freni e frizione, e il giorno prima dell’attentato in un altro garage dove Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia hanno preparato l’esplosivo all’interno dell’auto.

Le sue dichiarazioni hanno portato la Procura di Caltanissetta a riaprire le indagini sulla strage di via d’Amelio. Nel 2009, ex collaboratori di giustizia come Scarantino, Candura e Andriotta hanno confessato di aver subito pressioni psicologiche, maltrattamenti e minacce da parte di agenti investigativi per dichiarare il falso. Calogero Pulci ha invece sostenuto di aver agito spontaneamente per aiutare gli inquirenti.

Nel 2011, Fabio Tranchina ha confermato le dichiarazioni di Spatuzza, riferendo che una settimana prima dell’attentato, insieme a Graviano, aveva sorvegliato via d’Amelio e che Graviano aveva deciso di azionare il telecomando per l’esplosione.

A seguito di queste rivelazioni, la Corte d’assise d’appello di Catania ha sospeso la pena per vari individui condannati nei processi “Borsellino uno” e “Borsellino bis“.

Nel marzo 2012, il giudice Alessandra Giunta ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare per Vittorio Tutino, Calogero Pulci, Salvatore Madonia e Salvatore Vitale. Tuttavia, il procedimento a carico di Vitale è stato sospeso a causa delle sue gravi condizioni di salute che hanno portato alla sua morte.

Nel marzo 2013, con il rito abbreviato, Spatuzza è stato condannato a quindici anni di carcere, Tranchina a 10 anni e Candura a 12 anni per calunnia. Successivamente è iniziato il processo “Borsellino quater“, coinvolgendo Vittorio Tutino, Salvatore Madonia e gli ex collaboratori Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci.

Nel 2017, la Corte d’assise di Caltanissetta ha condannato in primo grado Tutino e Madonia all’ergastolo, Andriotta e Pulci a 10 anni per calunnia. Il reato di Scarantino è stato prescritto per le attenuanti poiché indotto a rilasciare false dichiarazioni. Nel 2019, la Corte d’assise d’appello ha confermato queste condanne e la prescrizione per Scarantino. Nel 2021, la Cassazione ha ratificato integralmente questa sentenza.

Processo nei confronti di Matteo Messina Denaro per le stragi di Capaci e via d’Amelio

Nel 2019, la Procura di Caltanissetta ha iscritto nel registro degli indagati i mafiosi catanesi Maurizio Avola, Aldo Ercolano e Marcello D’Agata per il reato di strage, a seguito delle nuove dichiarazioni di Avola. Quest’ultimo, dopo quasi 30 anni dalla sua collaborazione con la giustizia, si è autoaccusato di aver fornito supporto ai mafiosi palermitani insieme ad Ercolano e D’Agata nella realizzazione della strage di via d’Amelio.

Nel 2022, la Procura di Caltanissetta ha richiesto l’archiviazione dell’indagine a carico di Avola, Ercolano e D’Agata. Le indagini svolte non hanno trovato riscontri alle accuse di Avola, poiché è emerso che nel giorno della strage non poteva trovarsi a Palermo, come aveva dichiarato, ma era a Catania con il braccio ingessato. Inoltre, il suo racconto è stato smentito dall’unico superstite della strage, l’ex agente di scorta Antonio Vullo. Di conseguenza, Avola è stato indagato per autocalunnia e calunnia aggravate dal settembre 2021.

Nell’ottobre 2023, il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta ha rigettato la richiesta d’archiviazione e ha ordinato nuovi accertamenti sulle dichiarazioni di Avola.

L’indagine sulle dichiarazioni di Avola e la sua incriminazione per calunnia

Nel 2019, la Procura di Caltanissetta, guidata dal procuratore capo Amedeo Bertone e dai procuratori aggiunti Gabriele Paci e Pasquale Pacifico, ha iscritto nel registro degli indagati i mafiosi catanesi Maurizio Avola, Aldo Ercolano e Marcello D’Agata per il reato di strage. Questo è avvenuto in seguito alle nuove dichiarazioni di Avola, che dopo quasi trent’anni dalla sua collaborazione con la giustizia, si è autoaccusato di aver fornito supporto ai mafiosi palermitani insieme ad Ercolano e D’Agata nella realizzazione della strage di via d’Amelio.

Nel 2022, la Procura di Caltanissetta, ora guidata dal procuratore capo Salvatore De Luca e dai sostituti della Direzione Nazionale Antimafia Domenico Gozzo e Francesco Del Bene, insieme ai sostituti procuratori Nadia Caruso e Marcello Pacifico, ha richiesto l’archiviazione dell’indagine contro Avola, Ercolano e D’Agata. Questo perché non sono emersi riscontri alle accuse di Avola: le indagini hanno dimostrato che, nel giorno della strage, il collaboratore di giustizia non poteva trovarsi a Palermo, come da lui riferito, poiché era a Catania con il braccio ingessato. Inoltre, il suo racconto è stato smentito dall’unico superstite della strage, l’ex agente di scorta Antonio Vullo. Per questo motivo, Avola è stato indagato dalla Procura di Caltanissetta per autocalunnia e calunnia aggravate dal settembre 2021.

Nell’ottobre 2023, il giudice istruttore di Caltanissetta, Santi Bologna, ha respinto la richiesta di archiviazione e ha chiesto nuovi accertamenti sulle dichiarazioni di Avola.

Vicende collegate
L’indagine sui “mandanti occulti”

Nel 1993, la Procura di Caltanissetta avviò un’indagine per individuare eventuali complici esterni alle organizzazioni mafiose nelle stragi di Capaci e via d’Amelio, noti come “mandanti occulti” o “a volto coperto“. Nel 1998, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono stati iscritti nel registro degli indagati con l’accusa di concorso in strage, ma nel 2002 l’inchiesta è stata archiviata perché non sono emerse prove a sostegno delle accuse.

Nel 1994, Bruno Contrada è stato indagato per concorso in strage sulla base delle testimonianze che lo collegavano al luogo dell’attentato, ma nel 2002 le prove non sono state ritenute sufficienti e l’indagine è stata chiusa.

Nel 2002, diversi imprenditori sono stati indagati per concorso in strage in relazione alla gestione illecita di grandi appalti per conto della mafia, ma nel 2003 le indagini sono state archiviate per mancanza di elementi probatori.

Nel 2009, Giovanni Aiello è stato identificato come presunto “faccia da mostro“, coinvolto nelle stragi di Capaci e via d’Amelio, ma nel 2012 l’indagine è stata archiviata per mancanza di conferme alle testimonianze dei collaboratori di giustizia.

Nel 2010, l’ex funzionario del SISDE Lorenzo Narracci è stato indagato per concorso in strage, ma nel 2016 le accuse sono state archiviate per mancanza di prove certe.

L’indagine sulla scomparsa dell’agenda rossa

Nel febbraio 2006, la Procura di Caltanissetta iniziò un’indagine sulla scomparsa dell’agenda rossa del giudice Borsellino, dopo che una foto mostrava il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli allontanarsi dalla scena dell’attentato con la borsa del giudice. Arcangioli, interrogato, affermò di averla consegnata ai giudici Teresi e Ayala, ma loro negarono. Inizialmente indagato per false dichiarazioni, nel febbraio 2008 fu incriminato anche per il furto dell’agenda. Tuttavia, il giudice per le indagini preliminari respinse la richiesta, affermando che non c’erano prove sufficienti. Si ipotizzò che l’agenda fosse stata distrutta nell’esplosione. La Procura di Caltanissetta fece ricorso in Cassazione, ma senza successo.

Nel novembre 2023, la Procura di Caltanissetta iscrisse nel registro degli indagati la moglie e la figlia del defunto funzionario di polizia Arnaldo La Barbera, accusate di ricettazione aggravata dal favoreggiamento a Cosa Nostra, in possesso presumibile dell’agenda rossa. Tuttavia, l’agenda non è stata trovata durante le perquisizioni a casa loro e di altri parenti.

La strage di via D’Amelio nel processo sulla presunta “trattativa Stato-mafia”

Nel contesto del processo sulla presunta “trattativa Stato-mafia“, emersero diverse testimonianze e dichiarazioni significative.

Nel 2009, Massimo Ciancimino, figlio del noto boss Vito Ciancimino, dichiarò che l’ex colonnello dei carabinieri Mario Mori gli chiese “copertura politica” per i suoi contatti con suo padre al fine di fermare le stragi. Queste testimonianze furono supportate da Liliana Ferraro, ex vice direttore degli affari penali presso il Ministero della giustizia, e Claudio Martelli, ex ministro, che confermarono di essere stati avvicinati da Mori per ottenere questa “copertura politica“. Si scoprì anche che il giudice Borsellino era a conoscenza dei contatti tra Ciancimino e i carabinieri.

Il processo “Borsellino ter” acquisì dichiarazioni di collaboratori di giustizia, tra cui Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca, che sostennero che Salvatore Riina aveva ordinato l’uccisione di Borsellino per proteggere la presunta trattativa tra mafia e Stato.

In termini di sviluppi processuali, nel 2015 Calogero Mannino è stato assolto dall’accusa, una decisione confermata in appello nel 2019 e dalla Cassazione nel 2020. Nel 2018, la Corte d’assise di Palermo condannò diversi imputati, tra cui Mori e Subranni, ma nel 2021 la Corte d’assise d’appello di Palermo ribaltò la sentenza, assolvendo Mori, Subranni e altri, mentre confermava la prescrizione per altri imputati. Nel 2023, la Cassazione ha confermato le assoluzioni per alcuni imputati e dichiarato la prescrizione per altri.

Processo sul presunto depistaggio delle indagini

Nel luglio 2018, la Procura di Caltanissetta ha richiesto il rinvio a giudizio per il funzionario di polizia Mario Bo e per gli ispettori Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, con l’accusa di calunnia in concorso. Questi 3 individui facevano parte del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino“, guidato dal dirigente della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002), che si occupò delle prime indagini sulla strage di via D’Amelio. Durante queste indagini, gestirono la collaborazione controversa con Vincenzo Scarantino. Secondo l’accusa, avrebbero indotto Scarantino a rilasciare false dichiarazioni mediante minacce, maltrattamenti e pressioni psicologiche.

Il processo è iniziato il 5 novembre dello stesso anno presso il Tribunale di Caltanissetta. Il 12 luglio 2022, la Corte d’assise di Caltanisetta ha dichiarato prescritto il reato per Mario Bo e Fabrizio Mattei, mentre Ribaudo è stato assolto perché il fatto non costituisce reato.

Commemorazioni

Un anno dopo la strage di via D’Amelio, la signora Maria Pia Lepanto, madre del giudice Borsellino, ha promosso l’iniziativa di piantare un albero di olivo proveniente da Betlemme nel cratere lasciato dall’esplosione, simboleggiando la pace e la giustizia tra i popoli.

Ogni anno, in occasione dell’anniversario della strage, vengono organizzate manifestazioni ed eventi culturali per commemorare l’attentato in cui persero la vita il giudice Borsellino e gli agenti di scorta.

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