Lo squilibrio delle medie e grandi imprese italiane: sempre più profitti e sempre meno investimenti e salari

Uno studio condotto dall’Università La Sapienza di Roma ha messo in evidenza lo squilibrio nella remunerazione del lavoro all’interno delle medie e grandi imprese italiane. Questo studio ha analizzato il periodo compreso tra il 2020 e il 2023, durante il quale si è registrato un aumento del fatturato e dell’utile netto delle aziende. Nonostante questo incremento, i salari dei lavoratori non solo non sono aumentati, ma sono addirittura diminuiti

Lo squilibrio delle medie e grandi imprese italiane: sempre più profitti e sempre meno investimenti e salari

Lo squilibrio delle medie e grandi imprese italiane: sempre più profitti e sempre meno investimenti e salari. Un recente studio condotto dall’Università La Sapienza di Roma ha messo in evidenza un importante squilibrio nella remunerazione del lavoro all’interno delle medie e grandi imprese italiane. Questo studio ha analizzato il periodo compreso tra il 2020 e il 2023, durante il quale si è registrato un aumento del fatturato e dell’utile netto delle aziende. Nonostante questo incremento, i salari dei lavoratori non solo non sono aumentati, ma sono addirittura diminuiti. Inoltre, si osserva un ridotto reinvestimento degli utili nelle aziende, che sarebbe necessario per sviluppare nuove competenze, tecnologie e per ammodernare le fabbriche.

I ricercatori guidati da Riccardo Gallo hanno definito questo fenomeno come “disaffezione imprenditoriale”. Questo termine mette in risalto due aspetti: da un lato, le dinamiche della cosiddetta “lotta di classe” in un periodo di crisi e di de-globalizzazione; dall’altro lato, le difficoltà che le imprese italiane devono affrontare per rimanere competitive nel sistema economico e commerciale dell’Unione Europea. Questo avviene in un momento caratterizzato da inflazione e aumento dei costi energetici.

Nel rapporto si legge che “la componente ‘lavoro’, nelle imprese industriali, nonostante contribuisca significativamente alla produttività del sistema produttivo, appare pesantemente penalizzata dalle politiche di redistribuzione della ricchezza generata”. Inoltre, il divario retributivo con i Paesi industrialmente più avanzati “segnala una politica miope, destinata a produrre effetti negativi nei prossimi anni, acuendo problematiche che affliggono oggi le imprese”.

Analizzando i dati più recenti dell’Area Studi Mediobanca, il rapporto evidenzia che nel 2023 il fatturato delle società industriali medie e grandi è stato superiore di un terzo (34%) rispetto a quello del 2019. Anche il valore aggiunto è risultato maggiore di circa il 33%, ma con una distribuzione fortemente distorta. Infatti, la quota di valore aggiunto destinata ai salari è calata di ben 12 punti percentuali tra il 2020 e il 2023, mentre l’utile netto è aumentato del 14%. Questo significa che la remunerazione del lavoro dipendente è stata penalizzata a favore del capitale di rischio dei soci.

In aggiunta a questo scenario, negli ultimi quattro anni gli imprenditori hanno reinvestito nelle loro società solo il 20% degli utili netti, mentre l’80% è stato distribuito in dividendi, sottraendo così risorse all’ammodernamento delle fabbriche. Il mancato aumento dei salari è aggravato dal contesto economico in cui l’inflazione erode il potere d’acquisto dei lavoratori. Questa situazione potrebbe portare a un aumento della povertà e a una riduzione della domanda interna.

Cause dello squilibrio nella distribuzione della ricchezza

Tra le cause dello squilibrio nella distribuzione della ricchezza, il rapporto della Sapienza evidenzia anche il mancato rinnovo di molti contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL). Infatti, si afferma che “i quasi 6 milioni di lavoratori dipendenti di aziende aderenti a Confindustria entro pochi mesi resteranno per tre quarti senza contratto: il 53%% ne ha uno scaduto negli ultimi 12 mesi, il 10%% ne ha uno scaduto da oltre due anni, il 13%% ha un contratto che scadrà entro la fine di quest’anno”. Questo implica una diminuzione del salario, poiché i recuperi del periodo non coperto da CCNL non compensano mai completamente le perdite economiche subite.

Tuttavia, la causa principale del problema dei salari potrebbe essere individuata nella necessità di difendere la competitività mediante la compressione del costo del lavoro. Questa dinamica non è nuova; infatti, essa si è affermata con l’introduzione dell’euro. Prima dell’euro, era possibile svalutare la moneta per rimanere competitivi sui mercati. Con l’introduzione dell’euro e il sistema di cambi fissi, questa possibilità è venuta meno e la svalutazione della moneta è stata sostituita dalla svalutazione dei salari.

Siccome secondo un rapporto di Bloomberg Economics del 28 dicembre 2018: “vent’anni di appartenenza all’euro non hanno portato da nessuna parte l’Italia”. L’analisi prosegue dicendo che legare l’economia italiana ad alta inflazione alla potenza esportatrice tedesca senza prendere misure per aiutare le aziende italiane a competere ha portato l’Italia a perdere una guerra di logoramento.

Lotta di classe e concentrazione della ricchezza

Questo scenario ha accentuato quella che si può definire “lotta di classe”, come spiegato dal fisico e giornalista Marco D’Eramo in un’intervista a L’Indipendente. Secondo D’Eramo, questa lotta è stata vinta dalle élite. Queste ultime sono rappresentate dall’alta finanza e dal mondo bancario e industriale che hanno conquistato l’egemonia culturale monopolizzando le categorie del discorso collettivo. È stato affermato l’idea di uomo come “capitale umano“, facendo sembrare che la lotta di classe fosse scomparsa. In questo modo non esisterebbe più una distinzione netta tra imprenditore e operaio.

In Europa, questo processo è stato facilitato dall’impianto eurocentrico. Tuttavia, la tendenza alla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi è diffusa in tutto il mondo occidentale. Questo fenomeno conferma quanto dichiarato da warren Buffett, uno degli uomini più ricchi al mondo: “è in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”. La compressione dei salari appare come uno dei segnali più evidenti di questa “guerra” tra l’alta finanza speculativa e l’economia reale.

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