Esiste una distinzione da fare tra “critica lecita” e “diffamazione”. Mentre la libertà di espressione permette la critica, la diffamazione può portare a sanzioni, inclusa la perdita del lavoro
Scrivere sui social contro l’azienda: quando si rischia il licenziamento. Esiste una distinzione importante da fare tra la critica lecita e la diffamazione considerata reato. Mentre la libertà di espressione permette la critica, la diffamazione, soprattutto verso il datore di lavoro, può portare a sanzioni, inclusa la perdita del lavoro, se supera i limiti della moderazione.
Il licenziamento per un post sui social avviene solo in casi estremi di diffamazione grave o di danni alla reputazione dell’azienda. Tuttavia, se il licenziamento appare eccessivamente severo, la legge prevede la possibilità di reintegrare il dipendente sul posto o di ricevere un risarcimento.
La questione è stata esaminata anche dalla Cassazione, che ha emesso una sentenza (n. 13799/2017) a riguardo.
Post denigratorio su Facebook: quali conseguenze?
Pubblicare un post denigratorio contro l’azienda su Facebook può avere gravi conseguenze per il dipendente coinvolto. Queste conseguenze possono includere il rischio di essere licenziato per giusta causa, essere oggetto di una querela per diffamazione e ricevere una richiesta di risarcimento del danno.
La Suprema Corte ha stabilito che la pubblicazione di post gravemente offensivi verso il datore di lavoro sul profilo personale di Facebook del lavoratore può essere considerata un atto di insubordinazione, giustificando così un licenziamento per giusta causa.
Tuttavia, la Cassazione ha precisato che, per intraprendere azioni penali o risarcitorie, non è necessario avviare il procedimento disciplinare previsto dallo Statuto dei lavoratori prima del licenziamento. Queste azioni sono indipendenti l’una dall’altra. Di conseguenza, il datore di lavoro potrebbe licenziare il dipendente senza agire civilmente o penalmente, e viceversa.
Anche in caso di licenziamento, al dipendente spetta l’assegno di disoccupazione NASPI, poiché rientra nei casi di perdita involontaria del lavoro.
Post denigratorio contro il datore: quando è diffamazione?
La giurisprudenza considera la denigrazione diretta verso il datore di lavoro come diffamazione quando supera i confini della critica valida e diventa puramente lesiva. L’uso di espressioni aspre può essere considerato giustificato in contesti aziendali tesi, come in situazioni in cui i diritti dei lavoratori non sono garantiti o gli stipendi non sono pagati.
Tuttavia, la critica deve sempre rimanere entro i limiti della moderazione, evitando giudizi gratuiti sulla personalità morale o personale del datore di lavoro o dei vertici aziendali. Questo vale non solo per i post pubblicati sul proprio profilo personale, ma anche per i commenti su altri profili. Perfino gli emoji possono essere considerati parte della diffamazione se rappresentano immagini offensive.
Un tribunale ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente che ha insultato il datore di lavoro su Facebook. L’insulto non è stato considerato come una mera espressione inappropriata, ma come un comportamento in grado di compromettere la fiducia tra le parti del rapporto, specialmente considerando la visibilità del profilo Facebook del lavoratore e il pubblico che può aver accesso al contenuto.
Quando il posto su Facebook contro il datore non è vietato
Secondo una sentenza del Tribunale di Taranto del 26 luglio 2021, un impiegato non può essere sanzionato per aver pubblicato e condiviso su Facebook un post denigratorio riferito alla gestione precedente dello stabilimento dove lavora, anziché al datore di lavoro attuale. Il Tribunale ha considerato il fatto “insussistente“, poiché l’espressione critica, sebbene pubblicata, non viola gli obblighi contrattuali.
Inoltre, secondo una sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno del 19 novembre 2013, non è legittimo licenziare un dipendente che critica la clientela del datore di lavoro sulla propria pagina Facebook, purché questa critica costituisca uno sfogo, anche se volgare, e sia visibile solo a un numero limitato di persone per un breve periodo di tempo.
Quando spetta la reintegra sul posto di lavoro?
Con la modifica della legge sul lavoro attraverso il Jobs Act del 2015, le conseguenze per un licenziamento illegittimo sono cambiate.
Secondo le disposizioni:
- Se il fatto alla base del licenziamento è considerato “insussistente“, cioè non è mai avvenuto o non può essere considerato vietato, il dipendente ha diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro.
- Se la sanzione è ritenuta sproporzionata rispetto al fatto commesso, il dipendente ha diritto solo al risarcimento del danno.
Questa distinzione è importante perché:
- Se un dipendente viene licenziato per un post diffamatorio, ma il giudice ritiene che la sanzione sia eccessiva rispetto alla gravità del fatto, il dipendente riceve solo il risarcimento del danno.
- Viceversa, se il post non è diffamatorio ma rientra nel diritto di critica, il dipendente ingiustamente licenziato ha diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro.
La sentenza della Cassazione n. 13799/17 sottolinea che un fatto potrebbe essere moralmente criticabile, ma se non viola effettivamente la legge, non può giustificare sanzioni severe come il licenziamento. L’insussistenza del fatto contestato si verifica quando un’azione, pur potenzialmente censurabile, non risulta effettivamente illecita secondo le leggi o le norme applicabili al caso specifico.
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