Beniamino Zuncheddu, l’uomo assolto a gennaio dopo 33 anni in carcere da innocente: “Ho ripreso dieci chili e finalmente mi sono curato occhi e denti. La fede mi ha aiutato”. Il risarcimento: “Con quei soldi pagherò anzitutto l’avvocato. Poi vorrei aprire un caseificio”
Il sorriso timido e gli occhi curiosi. Sono le prime cose che colpiscono di Beniamino Zuncheddu, 60 anni, vittima del più grave errore giudiziario italiano. Quasi trentatré anni in carcere: fu arrestato che ne aveva ancora ventisei. Il 25 novembre di un anno fa gli sospendono la pena. Per l’assoluzione, che chiuderà il processo di revisione, bisogna aspettare il 26 gennaio. Da allora, ha ripreso almeno dieci chili, si è operato di cataratta, si è occupato dei suoi denti: gliene era rimasto solo uno.
Ci incontriamo a Burcei, cinquanta minuti di curve da Cagliari, nella casa di famiglia sulla strada che porta verso il monte Serpeddì a mille metri di quota. Nel salotto che è anche soggiorno e cucina, ci riscalda la stufa a legna ricavata da uno scaldabagno usato: il tubo di scarico passa per il comignolo del caminetto. C’è anche Augusta, la sorella di due anni più grande che non si è mai arresa alla sentenza che a tempo di record aveva giudicato il fratello colpevole per la strage di Sinnai (tre omicidi, un sopravvissuto): 30 giorni per il primo grado, 7 per l’Appello; la Cassazione si pronunciò meno di due anni dopo gli omicidi.
Adesso come passa le giornate?
«Sono un pensionato senza pensione. Dunque faccio qualcosa qui a casa, poi esco, vado ad aiutare mio fratello Damiano con le pecore…»
E sua nipote Maria Luigia, la figlia di Augusta, non l’aiuta con le capre?
«No, lei non mi vuole, dice che sono anziano».
Davvero ogni pastore conosce a memoria tutti i nomi dei suoi animali?
«Certo. Le capre di Maria Luigia si chiamano Betta, Agostena, Gianduia, Sitzigorru, che in sardo vuol dire lumaca… Qualche giorno fa si è impuntata con il padre che voleva far allattare un capretto dalla mamma sbagliata. Aveva ragione lei!».
La sera esce?
«Mi vedo con i miei amici, gli stessi di prima del carcere. Loro però ora hanno una famiglia. Mi piace ascoltarli».
La cosa più bella della nuova vita da uomo libero?
«Entrare e uscire di casa, aprire e chiudere la porta, quando lo decido io».
Ha rivisto Antonio, il ragazzo tetraplegico che aveva confermato il suo alibi per la sera della strage?
«Sono riuscito ad andarci un mese fa, prima ero sempre impegnato. Si è commosso. Conserva ancora il giornale di quando mi hanno arrestato».
E, invece, dopo la sentenza di revisione, ha rivisto Luigi Pinna, il sopravvissuto che con la sua falsa testimonianza l’aveva fatta condannare, o Mario Uda, il poliziotto che gli aveva mostrato la sua foto prima del riconoscimento, condizionandolo?
«No, delle persone dell’ingiustizia non ho più sentito nessuno».
Da chi le sarebbe piaciuto ricevere un messaggio?
«Intanto devo ringraziare tutte le persone del mio paese, il sindaco, il parroco e gli sconosciuti che continuano a manifestarmi il loro affetto. Mi hanno scritto anche alunni delle elementari di altri paesi: le loro lettere mi fanno felice. Giorgia Meloni è andata ad accogliere Chico Forti che tornava dall’America, ma a me non ha scritto neanche un biglietto. Mi sarebbe piaciuto riceverne uno da Mattarella».
Però ha incontrato il Papa. Era la seconda volta!
«Sì, la prima nel 2013, nella cattedrale di Cagliari: io ero tra i detenuti. Ad agosto, invece, siamo andati con mia sorella, mio cognato, mia nipote e la famiglia al completo del mio avvocato, Mauro Trogu».
È stato il suo sesto avvocato e ha lavorato pro bono. Appena otterrà il risarcimento sarà il primo da rimborsare.
«I consulenti lo stanno definendo, ma nessun risarcimento sarà mai abbastanza: ho vissuto più dentro il carcere che fuori. Sognavo una famiglia con figli e nipoti, e per quello è troppo tardi. Comunque, con quei soldi devo togliere subito i debiti e l’avvocato è in cima ai miei pensieri. Poi ci sono i periti che hanno lavorato gratis, e mia sorella e suo marito, che stanno continuando a prendersi cura di me. Senza di loro, una volta uscito dal carcere sarei stato un delinquente in più, perché non avevo nulla».
Se le avanza qualcosa per sé, cosa desidera fare?
«Mi piacerebbe aprire un caseificio in paese. Ma non tanto per me: lo vorrei fare per dare lavoro ai giovani».
I giudici di Roma l’hanno assolta in base al comma 2 dell’articolo 530 del Codice di procedura penale, che si applica «quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che l’imputato abbia commesso il fatto».
«Questa cosa mi fa arrabbiare, perché mi fa sentire innocente a metà. E poi nelle motivazioni non hanno tenuto conto che il mio principale accusatore aveva mentito, che non potevo avere il movente che mi attribuivano, che un poliziotto ha tenuto nel cassetto per più di 30 anni il vero identikit dell’assassino».
Trogu ha presentato istanza di rettifica al giudice.
«È stata respinta. Ha fatto opposizione al presidente della Corte di Appello di Roma, che lo stesso l’ha respinta. Ora farà ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, perché la motivazione dei giudici lede la presunzione di innocenza».
Si è chiesto perché è successo proprio a lei?
«Sì, e sono arrivato alla conclusione che ero il più fragile, uno che non si sarebbe potuto vendicare. Secondo l’avvocato e secondo me, quella strage era legata al sequestro di Giovanni Murgia. Altrimenti non mi spiego come mai Giuseppe Boi, condannato per essere uno degli organizzatori di quel rapimento, dopo abbia occupato l’ovile dove erano stati compiuti i delitti».
Ha girato tre carceri: a Cagliari, a Nuoro e a Uta. Come è riuscito a non farsi vincere dalla rabbia?
«Pensavo: se sbatto la testa al muro poi la testa si rompe e il muro resta come è».
Ha preso antidepressivi?
«Mai, niente. In carcere ti danno solo l’Aulin: per il mal di testa, per il mal di denti o se ti fa male un dito».
La fede l’ha aiutata?
«Sì, molto. Trogu è nato il giorno di santa Rita, la santa dei casi disperati. Per me, comunque, essere cristiani non significa solo credere in Dio, ma aiutare gli altri. Perché la fede non vale nulla se non ci sono pure le buone azioni. E io in carcere cercavo sempre di aiutare i miei compagni».
«Sì, bravissima. Si è data da fare perché mi venisse garantita l’assistenza medica. Quando ho visto che continuavano a rimandare le udienze per la revisione ho cominciato a scoraggiarmi: la piorrea mi ha fatto cadere i denti, avevo sempre mal di testa. Grazie a lei è partita la campagna mediatica».
Dal libro si farà un film?
«Sì, è venuto il regista con gli sceneggiatori. Hanno fatto il sopralluogo in campagna».
Chi vorrebbe che la interpretasse?
«Eh, non sono pratico. Speriamo che riesca a parlare con l’accento sardo».
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