Il disastro del Vajont avvenne quando una frana cadde nel bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont, causando l’esondazione dell’acqua e la distruzione di diverse comunità
Cos’è il disastro del Vajont? Nel 1963, si verificò il disastro del Vajont, quando una frana cadde nel bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont, causando l’esondazione dell’acqua e la distruzione di diverse comunità. Questo evento tragico portò alla morte di 1.917 persone, compresi 487 bambini e adolescenti. Le cause della tragedia furono attribuite ai progettisti e ai dirigenti della SADE, l’ente responsabile dell’opera, che avevano nascosto la fragilità dei versanti del bacino. Anche dopo la costruzione della diga, continuarono a ignorare la pericolosità della situazione, mettendo a rischio la vita di molte persone.
Cos’è il disastro del Vajont
Il 9 ottobre 1963, alle 22:39, si verificò una tragedia al Vajont. Circa 270 milioni di metri cubi di roccia, più del doppio del volume dell’acqua nel lago, si staccarono e precipitarono nel bacino sottostante, creato dalla diga del Vajont. La roccia scese a una velocità di 30 metri al secondo, superando di 250 metri l’altezza della diga. Una parte di essa risalì dall’altro lato, distruggendo i villaggi lungo le sponde del lago nei comuni di Erto e Casso. Un’altra parte si riversò nella valle del Piave, distruggendo quasi completamente Longarone e i paesi vicini. Un po’ di roccia cadde sulla frana stessa, creando un piccolo lago.
Le vittime furono 1.910 in totale, con 1.450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 provenienti da altri comuni.
Sulle sponde del lago del Vajont, i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino e la parte bassa di Erto furono completamente distrutti. Nella valle del Piave, i paesi di Longarone, Pirago, Faè, Villanova, Rivalta furono rasi al suolo e altri abitati subirono danni gravi.
L’evento fu causato da una serie di fattori, l’ultimo dei quali fu l’aumento del livello del lago sopra la quota di sicurezza di 700 metri, deciso dagli enti preposti. Questa operazione, ufficialmente eseguita per i test dell’impianto, potrebbe essere stata fatta con l’intenzione di far crollare la frana controllatamente nell’invaso, eliminando così il pericolo. Tutto ciò, unito a forti piogge e a gravi negligenze nella gestione dei rischi dovuti alla natura del terreno sul monte Toc, accelerò il movimento della frana.
Nel febbraio 2008, durante l’Anno internazionale del pianeta Terra, l’evento del Vajont è stato citato come un esempio di “disastro evitabile” causato da errori nell’analisi del problema da parte di ingegneri e geologi.
La frana del 9 ottobre 1963
La frana del 9 ottobre 1963 è un tragico evento che ha segnato la storia. Alla fine dell’estate del 1963, i segni di instabilità del Monte Toc erano evidenti, portando alla decisione di abbassare gradualmente il livello dell’invaso fino alla quota di sicurezza di 700 m s.l.m. indicata da Ghetti il 9 ottobre.
L’8 ottobre, su richiesta dei tecnici S.A.D.E., il Comune di Erto emise un avviso di pericolo, invitando la popolazione a evacuare l’area vicino al Gorc, oltre Pineda, la diga e la piana circostante. La comunità di Casso, in particolare, fu consigliata di utilizzare i mezzi messi a disposizione dalla Enel-Sade per evacuare in modo ordinato, evitando rischi con animali e beni. I boscaioli e i cacciatori furono invitati a cercare altre zone sicure. Si avvertì del pericolo di onde potenzialmente pericolose lungo le sponde del lago a causa delle frane del Toc.
Alle 22:39 del 9 ottobre 1963, una frana lunga 2 km, composta da oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e terra, si staccò dalla costa del Monte Toc. In soli 20 secondi, la frana raggiunse la valle, causando una scossa sismica e riempiendo il bacino artificiale.
L’impatto con l’acqua generò tre onde distruttive. Una di esse colpì le abitazioni di Casso e scavò il bacino del laghetto di Massalezza. Un’altra si diresse verso le sponde del lago, distruggendo alcune località nei comuni di Erto e Casso attraverso il dilavamento. La terza, di circa 50 milioni di metri cubi d’acqua, superò il bordo della diga, mantenendola intatta tranne per il coronamento percorso dalla strada di circonvallazione verso il versante sinistro del Vajont, e si riversò nella stretta valle sottostante.
Circa 25 milioni di metri cubi d’acqua che superarono l’opera raggiunsero il greto sassoso della valle del Piave, portando via detriti e causando la quasi completa distruzione di Longarone e di altri centri vicini. Si stima che circa 2.000 persone persero la vita (1.910 secondo le fonti ufficiali, ma il numero esatto è incerto). L’onda d’urto generata dallo spostamento d’aria fu eccezionalmente potente, paragonabile a metà dell’intensità della bomba atomica di Hiroshima, provocando la distruzione e la polverizzazione di molte vittime all’aperto.
I soccorsi furono ostacolati dalla strada divelta, e i primi a raggiungere Longarone furono i pompieri provenienti da Pieve di Cadore. L’intervento dell’Esercito Italiano iniziò alle 5:30 del 10 ottobre 1963, con gli Alpini e i vigili del fuoco impegnati nei soccorsi e nel recupero dei corpi. Solo 1.500 dei circa 2.000 cadaveri furono recuperati e riconosciuti, mentre la metà delle vittime rimase irrecuperabile.
Vittime
Nella tragedia del Vajont, avvenuta nel 1963, il numero delle vittime fu stimato a 1.910, ma solo 1.500 corpi furono recuperati. Tra le vittime, 487 erano bambini. Il più giovane, Claudio Martinelli di Erto e Casso (PN), nacque il 18 settembre 1963 e perse la vita a soli 21 giorni. La vittima più anziana, Amalia Pancot di Conegliano (TV), nata il 26 gennaio 1870, aveva 93 anni.
Delle 1.910 vittime, 64 erano dipendenti dell’Enel e delle imprese Monti e Consonda Icos, coinvolte nella costruzione della diga e nelle relative opere di servizio.
L’onda del Vajont
L’onda generata dalla frana si divise in 3 parti. Quella meno distruttiva si diresse verso monte, interessando Erto-Casso e altre località lungo il percorso. L’onda più devastante si riversò nella stretta vallata, colpendo Longarone e causando il maggior numero di vittime. Si stima che l’onda raggiunse un’altitudine di 250 metri nel lago. Questi fatti testimoniano la portata tragica e distruttiva dell’evento del Vajont.
Le vicende giudiziarie
Il procedimento penale e sentenze
Il 21 febbraio 1968, tre mesi dopo la requisitoria del pubblico ministero Arcangelo Mandarino, il giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, emise la sentenza del procedimento penale relativo al disastro del Vajont. Tra gli imputati figuravano Alberico Biadene, Mario Pancini, Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Curzio Batini, Francesco Penta, Luigi Greco, Almo Violin, Dino Tonini, Roberto Marin e Augusto Ghetti. Durante il procedimento, due imputati morirono, mentre un terzo si suicidò.
Il processo di primo grado iniziò il giorno successivo al suicidio di Pancini, presieduto dal giudice Marcello Del Forno. Si concluse il 17 dicembre 1969 con condanne per Biadene, Batini e Violin per omicidio colposo plurimo. Gli altri imputati furono assolti.
L’appello iniziò il 20 luglio 1970, durante il quale Biadene e Sensidoni furono riconosciuti colpevoli di frana, inondazione e omicidi. Ricevettero condanne a sei e quattro anni e mezzo, rispettivamente. Altri imputati furono assolti o non condannati.
Il processo di Cassazione si svolse a Roma dal 15 al 25 marzo 1971, confermando le condanne di Biadene e Sensidoni. Biadene fu condannato a cinque anni, di cui due per il disastro e tre per gli omicidi, ma beneficiò di tre anni di condono per motivi di salute. Sensidoni fu condannato a tre anni e otto mesi.
Il verdetto della Cassazione fu emesso quattordici giorni prima della scadenza della prescrizione, il 9 aprile 1971.
I dettagli del disastro del Vajont
Il disastro del Vajont si verificò la sera del 9 ottobre 1963, nel neo-bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont nell’omonima valle (al confine tra Friuli-Venezia Giulia e Veneto), quando una frana precipitò dal soprastante pendio del Monte Toc nelle acque del bacino alpino realizzato con l’omonima diga.
La conseguente tracimazione dell’acqua contenuta nell’invaso, con effetto di dilavamento delle sponde del lago, coinvolse prima Erto e Casso, paesi vicini alla riva del lago dopo la costruzione della diga, mentre il superamento della diga da parte dell’onda generata provocò l’inondazione e distruzione degli abitati del fondo valle.
- Causale del disastro: Una frana dal Monte Toc che ha causato l’ingresso massiccio d’acqua nel bacino.
- Causate vittime: Circa 1.917 morti ufficiali e circa 1.300 dispersi.
- Danni materiali: Valutati in circa 900 miliardi di lire.
- Aziende responsabili: Società Adriatica di Elettricità, Montecatini, ENEL, Ministero dei lavori pubblici.
L’evento è considerato uno dei più gravi disastri industriali nella storia italiana, evidenziando gravi carenze nella gestione della sicurezza e nella previsione dei rischi associati alla costruzione della diga.
Le sentenze d’appello e la conclusione
Il 16 dicembre 1975, la Corte d’Appello dell’Aquila decide contro il Comune di Longarone e condanna l’ENEL a risarcire i danni subiti dalle amministrazioni pubbliche, le quali a loro volta dovevano già pagare le spese processuali alla Montedison. Sette anni dopo, il 3 dicembre 1982, la Corte d’Appello di Firenze inverte questa decisione, condannando l’ENEL e la Montedison al risarcimento dei danni subiti dallo Stato e dalla Montedison per i danni al Comune di Longarone. Il 17 dicembre 1986, la Corte suprema di cassazione respinge il ricorso presentato dalla Montedison contro la sentenza del 1982.
Infine, il 15 febbraio 1997, il Tribunale Civile e Penale di Belluno ordina alla Montedison di risarcire il comune di Longarone per un totale di lire 55.645.758.500, comprendenti danni patrimoniali, extra-patrimoniali e morali, oltre a lire 526.546.800 per spese legali e onorari e lire 160.325.530 per altre spese. La sentenza è immediatamente esecutiva.
Nello stesso anno, il ricorso dell’ENEL contro il comune di Erto-Casso e il nuovo comune di Vajont viene respinto, obbligando l’ENEL a risarcire i danni subiti, quantificati in:
- lire 480.990.500 per beni patrimoniali e demaniali perduti;
- lire 500.000.000 per danno patrimoniale legato alla perdita parziale della popolazione e delle relative attività;
- lire 500.000.000 per danno ambientale ed ecologico.
La vicenda si conclude definitivamente nel 2000 con un accordo per la ripartizione dei costi di risarcimento tra ENEL, Montedison e lo Stato Italiano, con ciascuno che si assume il 33,3% delle responsabilità.
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